| 

LA TRAGEDIA DEL VIETNAM CINQUANT’ANNI DOPO (di Melania Acerbi)

Prologo

C’è una parola che torna ogni volta che si nomina il Vietnam: tragedia. Non per il numero dei morti, non per la durata del conflitto, non per l’effetto di canzoni e proteste, ma per le dinamiche della guerra stessa. Come in Eschilo, come in Sofocle, i soggetti si muovono dentro un destino già tracciato, ciechi alla colpa e sordi all’avvertimento. E quando arriva il momento della verità – quello che i greci chiamavano anagnorisis – è troppo tardi: la ferita è già inferta, la città già caduta, l’eroe già perduto. Raccontare il Vietnam significa raccontare una tragedia in sei atti.

CONTRIBUISCI ANCHE TU A SUPPORTARE IL NOSTRO GIORNALE
Caro amico lettore, come potrai immaginare, dietro questo blog ci sono diverse persone che collaborano agli articoli che tu quotidianamente leggi. Se desideri supportare la nostra attività, ti saremmo grati se volessi dare il tuo sostegno all’Iban IT53E3608105138290082390113. L’intestatario è Matteo Fais. Grazie di cuore, La Redazione.

I. Le premesse, o il destino già scritto

Nel 1945, Hồ Chí Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam citando la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti: “tutti gli uomini sono creati uguali”. Ma a Washington nessuno rispose. Fu un silenzio diplomatico, una disattenzione che a lungo raggio costò cara. Quel silenzio, più del clangore delle armi, fu l’inizio di una tragedia che avrebbe scosso l’intero equilibrio mondiale. Come nei drammi greci, l’errore fatale si annida nel principio, travestito da prudenza o da disinteresse.

La guerra del Vietnam si presenta come una tragedia classica, ma al contempo terribilmente moderna. La hybris dell’Occidente, la presunzione di poter imporre ordini lineari su terre lontane, si scontra con il fato: un destino che, nella sua forza implacabile, sconfigge ogni illusione di controllo. La Francia, in preda al disincanto dopo la sconfitta di Điện Biên Phủ nel 1954, passò il testimone agli Stati Uniti. Ma ciò che gli americani non sapevano era che quella guerra non si sarebbe mai potuta vincere, non in termini di vittorie militari, ma in termini di comprensione, giustizia, e soprattutto sul piano sociale e culturale.

Gli Stati Uniti, allora guidati dal Presidente Eisenhower e più tardi da Kennedy e Johnson, intendevano la guerra come una lotta senza confini contro il comunismo, convinti che la strategia del “contenimento” potesse funzionare anche in Indocina. Eppure, il Vietnam non poteva essere ridotto a una semplice pedina da mangiare sulla scacchiera della Guerra Fredda: nessun piano strategico occidentale riusciva a cogliere la realtà storica e culturale del paese asiatico. Un errore fatale che si rivelò subito evidente, ma la macchina bellica americana continuò ad avanzare con determinazione. E così, l’Occidente a stelle e strisce condusse una guerra che sarebbe stata travolgente non solo per il Vietnam, ma per sé stesso.

Il Vietnam, infatti, è una guerra che ha insegnato agli Stati Uniti come l’arroganza, la manipolazione della verità e la violenza spesso cieca, possono distruggere la propria stessa anima. E questo, nel profondo, è ciò che la rende una tragedia di portata universale.

II. Le battaglie, o la carne e il mito

Nel 1965, gli Stati Uniti iniziarono a inviare truppe regolari in Vietnam del Sud. La guerra si trasformò da un conflitto di guerriglia in un conflitto convenzionale, con battaglie campali che avrebbero segnato la storia del tardo Novecento. Nella valle di Ia Drang, le truppe americane entrarono in contatto diretto con le forze nordvietnamite: là scoprirono quanto fosse complessa e spietata la guerra in quella terra paludosa e afosa. I soldati americani, pur armati con la tecnologia più avanzata del mondo, non riuscivano a contrastare l’incredibile determinazione dei combattenti vietcong, che conoscevano ogni angolo della giungla, ogni pertugio maleodorante, ogni ramo spezzato. I mezzi tecnologici, come gli elicotteri e il napalm, si rivelarono quasi inutili contro la forza irremovibile della resistenza vietnamita.

In questo scenario frustrante, la guerra assunse una dimensione mitologica. La battaglia di Ia Drang, infatti, non fu solo una prova di forza tra eserciti, ma rappresentò la concretizzazione di una disillusione: l’America non credeva più alla propria invincibilità. E la realtà, riflessa nella giungla, divenne sempre più complicata, segnata da ambiguità morali, dilemmi etici e pervasa da un senso di impotenza che abbatteva i soldati americani. La guerra in Vietnam divenne, allora, più di una semplice questione militare e ideologica: essa si fece dubbio paralizzante intorno alla percezione di cosa significasse vincere.

L’offensiva del Têt del 1968 rappresenta uno dei momenti di svolta di questo conflitto, in particolare dal punto di vista psicologico. Sebbene gli Stati Uniti avessero militarmente respinto l’offensiva, il popolo americano assistette a scene sconvolgenti: la capitale Saigon fu invasa, l’ambasciata americana presa d’assalto, e la vulnerabilità della nazione più potente del mondo divenne un’immagine indelebile, che spazzò via ogni speranza di vittoria facile. Quella che era iniziata come una guerra giusta per fermare il comunismo si trasformò presto in un incubo senza fine. In una tragedia greca, sarebbe stato il momento in cui il destino si manifesta con chiarezza: non esistono vere vittorie, solo cicatrici più o meno visibili.

Ecco, dunque, che la guerra del Vietnam si avvicina al mito: una serie di battaglie sanguinose che, purtroppo, non hanno mai conosciuto la gloria o il significato epico che si presume assumano certi eventi. Sono solo la carne e il fango della tragedia.

È uscita la seconda raccolta poetica di Matteo Fais, Preghiere per cellule impazzite (Connessioni Editore, collana “Scavi Urbani), ed è disponibile in formato cartaceo e ebook:
(cartaceo 12 euro)
(ebook 5 euro – gratuito per gli abbonati a Kindle Unlimited)

III. Gli eroi, o la dignità in guerra

Eppure, nonostante tutto, tra le ombre della guerra del Vietnam emergono figure che, anche nel disastro, riuscirono a conservare un’idea di dignità. La retorica ufficiale della guerra glorificava i soldati, ma la realtà dei fatti racconta di uomini che, spesso, si trovarono in conflitto non solo con l’avversario, ma con la propria coscienza. Ron Kovic, ferito gravemente e tornato a casa paralizzato, ha raccontato la propria tragedia e disillusione  in una potente denuncia contro la guerra. Il suo libro, Born on the Fourth of July, rappresenta uno dei documenti più potenti e strazianti del dopoguerra, un grido di dolore che ancora oggi riecheggia nelle menti di chi non ha dimenticato. Hugh Thompson, il pilota che fermò il massacro di My Lai, diventa un esempio di eroismo tragico. Si oppose ai suoi superiori, mettendo in gioco la propria carriera, per fermare l’orrore che stava avvenendo sotto i suoi occhi. Fu un eroe, sì, ma un eroe che si trovò isolato, senza gloria, senza riconoscimento. E questo è il paradosso della guerra del Vietnam: gli eroi erano, troppo spesso, invisibili.

Dall’altra parte del conflitto, la figura di Nguyễn Văn Bảy, il pilota di caccia che affrontò la superiorità aerea americana, diventa emblema di un’altra forma di resistenza. Con un aereo antiquato, senza il supporto logistico e tecnologico degli americani, riuscì a infliggere gravi perdite alle forze nemiche. Ma anche lui, come tanti altri, non fu mai celebrato dalla retorica ufficiale.

E non si può dimenticare l’opera dei medici, come Dang Thuy Tram, che nei suoi diari ha descritto l’esperienza di un conflitto disumano divenuto, inevitabilmente, il suo banco di lavoro quotidiano. Tram morì mentre curava i feriti, e le sue parole sono il testamento di una guerra che non ha mai smesso di uccidere, anche dopo la sua fine.

Nessuno di questi uomini è tornato dalla guerra come eroe in senso classico. La guerra del Vietnam non è mai stata una guerra da vincere, ma un calvario da sopportare. Eppure, nelle pieghe di quella sofferenza, è emersa una forma di dignità che non va dimenticata.

È uscito il nono numero di “Il Detonatore Magazine”: https://www.calameo.com/read/007748197e21705cb7264

IV. Il Vietnam in America: proteste, canti e roghi

In America, la guerra del Vietnam fu combattuta anche nelle piazze, nelle università, nelle strade. La protesta contro la guerra divenne un movimento di massa che coinvolse milioni di civili. Era il primo conflitto di portata globale che vedeva l’opinione pubblica statunitense opporsi così apertamente alla propria amministrazione. I campus universitari si trasformarono in centri di resistenza, con studenti e attivisti che lottavano per fermare un conflitto che vedevano come ingiusto. Bob Dylan, Joan Baez, Crosby, Stills, Nash & Young cantavano per la pace, portando la voce della protesta nelle case di tutti gli americani. Le canzoni diventavano inni di ribellione contro un governo che sembrava incapace di fermare la macchina bellica.

Nel 1970, la strage della Kent State University, con quattro studenti uccisi dalla Guardia Nazionale, segnò un punto di non ritorno. Le immagini di quei giorni, riprese dalle televisioni, mostrarono al mondo che l’America stava perdendo il controllo, non solo sulla guerra, ma sulla propria identità. Il movimento pacifista divenne una forza politica e culturale che si opponeva alla guerra e che ridefiniva cosa significasse essere americani.

I Pentagon Papers del 1971, con la rivelazione dei documenti segreti sulla guerra, sembravano confermare ciò che molti sospettavano: l’amministrazione americana sapeva che non si poteva vincere, ma continuava a mentire al proprio popolo. Come Edipo, colpevoli prima ancora di sapere. La guerra del Vietnam, quindi, non fu solo una tragedia lontana: fu una guerra che sconvolse l’anima stessa dell’America. La fiducia nelle istituzioni crollò e, come nelle tragedie greche, il popolo dovette confrontarsi con la sua stessa colpa.

ACQUISTA il nuovo romanzo di Matteo Fais, Le regole dell’estinzione, Castelvecchi.
AMAZON: https://www.amazon.it/regole-dellestinzione-Matteo-Fais/dp/8832828979/
IBS: https://www.ibs.it/regole-dell-estinzione-libro-matteo-fais/e/9788832828979

V. I figli spezzati della nazione: i neri in prima linea

I soldati afroamericani pagarono il prezzo più alto nella guerra del Vietnam. Rappresentavano una percentuale sproporzionata tra i caduti rispetto ai bianchi, spesso mandati in prima linea, nei ruoli più pericolosi, in nome di una patria che ancora li discriminava. Fu una delle contraddizioni più stridenti del conflitto: mentre combattevano nella giungla del Sud-est asiatico, venivano picchiati e incarcerati nelle strade di Selma, Detroit, Chicago.

Come potevano morire per la libertà in Vietnam, se a casa loro non erano ancora uomini liberi? Muhammad Ali, rifiutando la leva nel 1967, disse: “Nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”. Quella frase, fulminante nella sua semplicità, distrusse anni di retorica patriottica. Smascherò la menzogna e rappresentò il grido di chi non era più disposto a farsi strumento di un potere che non lo riconosceva.

E non furono pochi, tra i soldati neri, coloro che svilupparono una coscienza politica radicale proprio in Vietnam. Tornarono indietro traumatizzati e, soprattutto, disillusi, pronti a unirsi ai movimenti per i diritti civili o, addirittura, a sostegno del Black Power. Per molti di loro, la guerra non era finita a Saigon, ma continuava nelle strade di Harlem e Cincinnati.

VI. Catarsi e memoria: la resa dei conti

Il 30 aprile 1975, con la caduta di Saigon e la fuga in elicottero dall’ambasciata americana, si chiudeva ufficialmente la tragedia. Ma nessun coro greco avrebbe potuto cantarne la fine. Nessun dio, nessuna giustizia ristabilita, solo polvere, silenzio, e il disordine delle anime.

L’America non fu più la stessa. La sua fiducia nel potere, nel destino manifesto, nella propria infallibilità, venne irrimediabilmente compromessa. La catarsi fu dolorosa, lunga, e in parte ancora incompiuta. I reduci, spesso abbandonati, tornarono in un paese che non li voleva più guardare negli occhi. I monumenti, come il Vietnam Veterans Memorial a Washington, non bastarono a riparare lo strappo. Perché il vero monumento, la vera memoria, stava nelle ferite non rimarginate, nelle ombre che ancora attraversano l’immaginario americano.

E anche oggi, cinquant’anni dopo, il Vietnam continua a interrogare. Non solo gli Stati Uniti, ma tutto l’Occidente. Il Vietnam è stato, allora, crisi di potenza e di coscienza; la scoperta, tragica e ineluttabile, che la violenza spietata della guerra, anche quando necessaria alla libertà, distrugge, anzitutto, l’anima.

Melania Acerbi

L’AUTRICE

Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming). 

Contattimel.acer@gmail.com

Articoli simili

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *