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TRUMP E LE UNIVERSITÀ – THE DONALD VS HARVARD (di Melania Acerbi)

Quando, nel 1950, Ernst Kantorowicz ricevette la richiesta di firmare un giuramento di lealtà anticomunista per poter continuare a insegnare all’Università di Berkeley, lui che era fuggito dalla Germania nazista e che aveva conosciuto il peso del giuramento nazista sull’anima tedesca, si rifiutò. Lo fece da uomo d’onore, da storico, e da reduce di un secolo che aveva già mostrato, in meno di vent\’anni, fino a dove può arrivare lo Stato quando mette le mani sulle coscienze. 

Kantorowicz non era un ribelle per posa: era stato volontario nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, aveva simpatizzato con il nazionalismo tedesco postbellico, e proprio per questo conosceva a fondo le ombre della disciplina forzata, della menzogna patriottica, della richiesta di fedeltà. Era ebreo, ma si era sentito prima di tutto tedesco, finché non fu costretto a scegliere. Dopo l’esilio e la rinascita americana, era in grado individuare i segnali d\’allarme. Quando la richiesta di giuramento arrivò, infatti, scrisse una lettera accorata in cui sosteneva che uno Stato che obbliga un professore universitario a giurare sulla propria innocenza politica è uno Stato che ha già oltrepassato la soglia della democrazia.

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Fu licenziato. Venne poi accolto all’Institute for Advanced Study di Princeton, tra alcuni dei grandi intellettuali – in gran parte esuli europei – del Novecento, a continuare il suo lavoro sul doppio corpo del re, sulla sacralità della politica medievale e sull’ambiguità dell’autorità. Non firmò, dunque, e resistette. La sua è una lezione che oggi torna con una forza spaventosa.

Perché oggi, nel 2025, l’America si ritrova ad affrontare un problema simile, ma da un angolo diverso. Il presidente Donald Trump, tornato al potere tra le polarizzazioni ideologiche e le tensioni razziali del post-7 ottobre — l’attacco di Hamas a Israele — ha firmato un ordine esecutivo che minaccia di tagliare miliardi di fondi federali alle università, Harvard in testa, accusandole di essere diventate terreno fertile per l’antisemitismo. E questa volta, a differenza degli anni Cinquanta, l’accusa non è infondata.

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Perché sì, va detto chiaramente: in molte università americane, l’antisemitismo ha trovato un rifugio colpevole dietro le maschere del radicalismo, dell’anti-imperialismo, della militanza anti-fascista. Manifestazioni in cui si giustificano attacchi terroristici, docenti che tacciono su slogan di odio, amministrazioni lente e ambigue nelle risposte. A ottobre 2023, dopo i massacri perpetrati da Hamas, alcuni campus non hanno nemmeno emesso un comunicato di condanna. In altri, molti studenti ebrei sono stati minacciati. Certe ideologie, nutrite da anni di revisionismo storico e identitarismo esasperato, sono sfociate in vere e proprie posizioni negazioniste, antisemite, sebbene travestite da attivismo pacifista. Sarebbe da ipocriti negarlo. Il male cambia abito, ma la sua carne marcescente resta la medesima. 

Trump, con il suo istinto da bulldozer, ha colto questa debolezza. E ha affondato il colpo. Con l’executive order in questione ha ordinato al Dipartimento per la Sicurezza Interna di esigere documenti su presunti studenti stranieri implicati in attività illegali o pro-Hamas. Se Harvard non consegnerà quei documenti entro il 30 aprile, rischia di perdere l’autorizzazione a iscrivere studenti internazionali: sarebbe una catastrofe economica, culturale e simbolica. Altri enti federali hanno già tagliato due borse di studio. Il messaggio è chiaro: o vi ripulite o vi chiudiamo i rubinetti.

E qui torna Kantorowicz. Perché anche se le motivazioni oggi sono giuste — frenare l’antisemitismo, proteggere studenti ebrei — gli strumenti sono gli stessi: il controllo totale e il ricatto finanziario. E, in ultimo, l’uso della macchina statale per riplasmare la cultura. Questo, in una democrazia, è assai pericoloso.

Le domande, allora, si affollano: può uno Stato decidere cosa è cultura accettabile e cosa no? Può un governo minacciare un’università se non si conforma a una determinata narrazione storica o politica, anche se quella narrazione è, oggi, più che giustificata? È giusto reagire con il pugno duro a un clima di odio, se il prezzo è l’autonomia della ricerca? Possiamo combattere l’antisemitismo con la stessa logica autoritaria con cui, in altri tempi, si perseguitavano ebrei e intellettuali scomodi? 

È uscito l’ottavo numero di “Il Detonatore Magazine”: https://www.calameo.com/read/0077481974591de30877f

La sinistra universitaria, va detto, ha la sua ingente parte di colpe. Negli ultimi anni, sotto l’amministrazione Biden in particolare, si è fatto strada un clima censorio all’opposto: un’egemonia woke fatta di comitati di parola, corsi obbligatori su genere e identità, epurazioni linguistiche, microaggressioni punite come reati, licenziamenti per opinioni non conformi. La libertà accademica è stata anzitutto erosa da sinistra, sotto la bandiera dell’inclusività. L’autocensura si è insinuata nelle aule. La diversità di opinioni è stata sacrificata sull’altare dell’omogeneità etica. Non è stato il governo a imporlo, ma un vento ideologico totalizzante.

Ora arriva l’onda di forza contraria: quella reazionaria, disciplinare, vendicativa. Il pendolo oscilla, e il bersaglio non è più il linguaggio, ma i fondi; non più l’inclusività forzata, ma l’epurazione dei sospetti. Cambiano i nomi, ma non il meccanismo: è sempre il potere che plasma la cultura, quando dovrebbe essere la cultura a interrogare il potere.

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La grande verità è che non c’è da affidarsi ciecamente a nessuno. Né a Trump, con il suo uso spregiudicato dell’autorità, né alle università, che per troppo tempo hanno tollerato ambiguità pericolose. L’America di oggi, sotto certi aspetti, somiglia più a uno zoo ideologico che a una democrazia matura: tra proclami, reazioni isteriche e crociate morali, si rischia di perdere il senso stesso del confronto intellettuale. 

“Libertà accademica” non significa dare rifugio all’odio, bensì pretendere che il discernimento lo faccia chi insegna, non chi comanda. Se oggi Harvard deve ripulirsi, deve farlo per coscienza, non per ricatto. E se lo Stato ha il dovere di proteggere i suoi cittadini, deve farlo senza diventare il curatore d’anime dei suoi intellettuali. Kantorowicz, oggi, ci ricorderebbe che non esiste una verità imposta dall’alto che possa reggere, neanche quando sembra giusta.

Melania Acerbi

L’AUTRICE

Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming). 

Contattimel.acer@gmail.com

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