RECENSIONE – “PREGHIERE PER CELLULE IMPAZZITE” – POESIA (di Isabella Paola Stoja)
Esce in questo mese di aprile il nuovo lavoro poetico di Matteo Fais, Preghiere per cellule impazzite, per la collana Scavi Urbani di Connessioni Editore.
L’autore, già noto per L’alba è una stronza come te, è famoso per i suoi toni post-romantici, ironici e dissacranti, con cui medita con una certa disillusione sulle relazioni amorose dei nostri tempi, sullo sfondo di scenari metropolitani che a nessuno possono risultare ignoti.

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L’intera opera ha un impianto, di fatto, narrativo: racconta, a tratti con ferocia, la fine di una storia d’amore e mette in scena tutto il livore, il rimpianto, la nostalgia che spesso caratterizzano il distacco di due amanti.
La raccolta prende le mosse da una profonda spinta introspettiva, una confessione venata di vago petrarchismo: confesso tutte le fragilità. Cosa ci confessa l’autore? Semplicemente, di aver sprecato un’infinità / di attimi preziosi.
Tra immagini quotidiane e urbane, vive, vicine a noi tutti, come un disco graffiato, il telefono distrutto dopo una brusca lite, lo sporco sui marciapiedi, il freezer di un ristorante cinese, l’autore dichiara con impeto crudo quanto sia a volte banale questa vita che ci tocca in sorte, e al contempo quanto sia imprescindibile conservarne la fame, perché ci sono miracoli lì dove / si impara a vederli.
Se da un lato la vita irrimediabilmente sfugge, dall’altro è pienamente umano il non volere perdere le cose, gli amori passati, pezzi di sé che, per quanto finanche ripugnino, ci rendono quello che siamo. Bisognava solo imparare / ad amare ogni cosa, / anche l’insopportabile.

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E insopportabile è, per il poeta, che di lui si ricordino solo le parole terribili, ci prega di non farlo e noi non lo faremo, perché nei suoi versi trova spazio qualcosa di più che la semplice registrazione di stati d’animo striati di acredine e tormento. Ci sono domande, nei suoi testi, che urla a gran voce, domande che ci riguardano tutti.
Se il tema centrale dell’opera è l’Amore, gli fa da contrappeso la sua atavica compagna: la Morte. Nel libro, essa si declina in due modalità: il dover morire, cosa che il poeta afferma, accoglie e al contempo rifugge in maniera ferma e risoluta, e il fantasma della madre, che visita spesso queste liriche, a volte evocato nella sua cruda e torbida decomposizione. Come si può non morire? Fais è ben conscio del fatto che tale sorte spetti a lui come a tutti, ma vi si oppone praticando l’amore in ogni sua possibilità. È lì che si cerca l’ingresso per l’eterno.
Ne scaturisce la dirompente dimensione erotica di queste poesie, in cui si avvicendano molte “donne dello schermo”, che vanno a velare e svelare il ricordo e il bisogno di colei che, unica, ha spezzato il cuore all’autore. Tra l’insaziabile declinazione di baci, quasi in una catulliana esorcizzazione non delle malelingue, ma in questo caso della morte, e l’imperativo bisogno di possedere – nel senso carnale ed esistenziale – l’amante, egli mette in luce con realismo spietato quanto il sesso sia in realtà la via privilegiata per connetterci con qualcuno nella sua più sacra essenza. Ogni donna biblicamente conosciuta ha un’effigie nel suo personale sacrario della memoria.

Trasversalmente alle poesie del libro, si ritrova un profondo sentimento religioso: molteplici sono i riferimenti cristologici (la Croce, i chiodi, il corpo di Cristo trovato in quell’odio), ma è Dio stesso che di frequente il poeta chiama in causa, mentre cerca l’amore in mezzo al fragore quotidiano di luoghi semplici, come i bar, i centri commerciali, i ristoranti.
Nelle sue notti insonni, sperimenta un senso di vuoto che non è mai vuoto di senso, anzi ne é desiderio puro e irrefrenabile, e la sua angoscia si rispecchia nelle cose di un mondo con cui non sono riuscito a venire a patti. Così, la ragazza che consegna per Amazon, che può solo scampanellare alle porte / che non varcherà mai diventa emblema della precarietà e dell’incomunicabilità che affliggono noi e l’intero universo.
Il grande protagonista dell’opera è un io consapevole del suo peso specifico nella storia e nello spazio, eppure vi si trova come sospeso: da qualche parte, perso nel tempo / c’è un uomo che porta il mio nome / e ha vissuto di una brama / struggente e incomprensibile.
La poesia di Fais si sporca le mani, si impasta di realtà, col suo lessico immediato e il suo stile diretto, ma mai privato della sua dignità letteraria. Una “voce netta” che “si dà senza pudori”, come scrive nella prefazione Valentino Fossati.

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Nel testo di chiusura, la “lei” che aleggia nei sogni e negli incubi dell’autore, nonché in queste poesie, diviene parte fisica e infinitesimale del suo corpo: è lei la ragione delle cellule impazzite del titolo. Le fa impazzire per ripicca, per “fargliela pagare”, adesso che lui afferma di non amarla più.
Conclude il libro la breve silloge Un amore di serial killer, in cui l’autore gioca con oscuro sarcasmo sull’analogia assassini-amanti, così simili, entrambi a caccia di piaceri malsani. Anche gli amanti, come i killer, trattengono sempre con sé una reliquia, per non lasciare andare del tutto ciò che è stato. Restano i loro filmati, gli audio e le foto / a ricordarci di cosa è capace l’essere umano / quando ama o ha sete di sangue.
Non adatto ai deboli di cuore.
Isabella Paola Stoja
L’AUTRICE
Isabella Paola Stoja, classe 1990, nasce a Bologna. Cresce in Basilicata a Policoro e nel 2009 si trasferisce a Milano per frequentare la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Oggi è docente di Lettere presso il liceo scientifico “E. Fermi” di Milano. Vive in provincia di Varese con suo marito, sua figlia e i suoi due gatti. Le sue raccolte poetiche sono: La neve dei pioppi (Monetti editore, 2021), Cronache dalla controra (Chipiuneart edizioni, 2022), Lettere a Endimione (Chipiuneart edizioni, 2023). Con La neve dei pioppi e Cronache dalla controra ha vinto il Premio internazionale “Le Pieridi”, con Lettere a Endimione il Premio letterario “Alessandro Manzoni” della città di Arcore.