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LA SOCIETÀ DEL TRIONFO DELLA STUPIDITÀ (di Matteo Fais)

Tutti quanti abbiamo un amico che è un coglione qualunque. Non c’è niente di male. Sarebbe bello – forse… – vivere circondati da geni e grandi poeti. Eppure, poco ma sicuro, i più sono ben lungi dal rientrare in tali alte categorie.

Il vero problema, a ogni modo, non è tanto che uno sia un povero demente qualsiasi. La società ha bisogno per la maggior parte di gente che aggiusti i cessi e faccia le pizze. Insomma di qualcuno che, quantomeno, possieda un’abilità tecnica e manuale che, malauguratamente, nel nostro tempo sta pian piano scomparendo – infatti, uno degli aspetti più tragici di tutta l’inutile gioventù in circolazione è proprio che questa, oltre a essere ignorante, non ha neppure un qualsivoglia sapere della mano, per dirla con André Leroi-Gourhan.

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Ora, la complicazione che si delinea al nostro cospetto è che i cretini non si sentono più tali. Le persone imbecilli che conosciamo, le quali hanno più tatuaggi sulle braccia che libri in casa, si sono convinte che tra loro e uno specialista della materia non corra alcuna differenza. L’‘Uno vale uno” di grillina memoria, in tal senso, ne è solo la consacrazione politica.

Il punto è comprendere come si sia arrivati a tutto ciò. È necessario, per arrivarci, capire come certe istanze del postmoderno siano state travisate dal popolino a proprio uso e consumo. Purtroppo, determinate critiche alle grandi narrazioni che hanno segnato la modernità, in ultimo, si sono risolte in un relativismo spicciolo, di bassa lega, non certo una posizione filosoficamente degna.

Per intenderci con un esempio: si potrebbe certo dire – cosa oramai ben nota – che tra la medicina e l’affarismo più spietato intercorra più di un legame pericoloso. Chiunque abbia un briciolo di intelligenza ha compreso che, se la sanità pubblica, in Italia, non funziona è perché molti tra coloro che vi lavorano esercitano, contemporaneamente, anche in privato e hanno dunque tutto l’interesse a inceppare i suoi meccanismi – sempre per capirci, tutto ciò corrisponde alla formula “La visita tra sei mesi ma, se vuole, dopodomani, nel mio studio, sono 600 euro”.

Per carità, si tratta di una colossale stortura e andrebbe combattuta. Il fatto è che, nella mente dell’uomo medio, avviene un salto logico privo di fondamento: “Se molti medici sono dei colossali arrivisti che tentano solo di far soldi, anche mia zia Bettina può curarmi con i suoi rimedi naturali. Per tutto il resto, c’è Google”.

Naturalmente, queste sono stronzate: la vecchia zia di medicina non capisce un cazzo e Google, messo in mano a uno che non sa neppure dove si trovi il fegato, è un fucile carico lasciato a un bambino per giocare.

È uscita la seconda raccolta poetica di Matteo Fais, Preghiere per cellule impazzite (Connessioni Editore, collana “Scavi Urbani), ed è disponibile in formato cartaceo e ebook:
(cartaceo 12 euro)
(ebook 5 euro – gratuito per gli abbonati a Kindle Unlimited)

E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Avrete notato che i vostri amici cretini sono quelli che vi ripetono costantemente, come un mantra, che la laurea non è dimostrazione di un bel niente. Da un certo punto di vista, bisogna riconoscere, non hanno tutti i torti. Un ingegnere può ben essere laureato ma valere meno del muratore che lavora nella sua azienda. Il fatto è che ciò non è ancora la dimostrazione dell’inutilità del titolo accademico. Casomai, del fatto che questo debba andare a integrarsi con una viva intelligenza.

La constatazione che ci siano anche dei laureati incapaci non sminuisce il valore della laurea, non ci dice che quindi, chiunque è ingegnere, pur con la terza media e dopo avere passato una vita a lavare le scale dei palazzi. Casomai, ciò che emerge è che la laurea, insieme allo spirito critico, sono la base su cui una persona, nel corso della sua intera vita, dovrà partire per costruire un sapere sempre più strutturato e approfondito. Va da sé che un laureato in Lettere che smetta di leggere, dopo dieci anni, non avrà più il polso della direzione intrapresa dalla produzione culturale, perché quel titolo gli ha unicamente fornito le basi sulle quali poi continuare ad approfondire le proprie conoscenze.

È uscito l’ottavo numero di “Il Detonatore Magazine”: https://www.calameo.com/read/0077481974591de30877f

Ciò che è importante intendere è che mai e poi mai tutti saranno uguali, laurea o non laurea. De Crescenzo, certo, avrà anche potuto saperne più della maggior parte dei docenti di filosofia, pur essendo laureato in ingegneria, ma tale risultato l’ha guadagnato studiando i testi di altri docenti, grazie alla sua autonomia intellettuale. Alla fin fine, in soldoni, per essere come Massimo Cacciari non è necessario avere il titolo di docente ordinario, ma bisogna comunque aver studiato quanto il pensatore veneziano.

Manco a dirlo, tale processo degenerativo è stato acuito dalla diffusione dei social. Non mi si fraintenda: questi sono potenzialmente uno straordinario strumento di conoscenza e democrazia. Solo, lasciati nelle grinfie di una massa di beoti, divengono strumenti di amplificazione dell’imbecillità generalizzata. Lo si capisce facilmente facendo un giro al loro interno. Oramai la verità, in essi, è fattore del tutto secondario, se non proprio ininfluente. Tutti cercano qualcuno che li confermi nelle proprie convinzioni. Se Gino scrive che ha visto gli alieni farsi un selfie di fronte al Duomo di Milano e cento svalvolati gli mettono like, lui si convincerà di aver postato qualcosa di credibile. Le sue paranoie infondate, per cui dovrebbe recarsi in cura da uno psichiatra, si tramuteranno in verità rivelata per una certa comunità ideale. Per tal motivo la mera libertà di parola è di un’inutilità sesquipedale, perché l’umanità ha bisogno di verità da persone competenti che abbraccino la sua causa, senza paura del potere e delle sue possibili ritorsioni, non di un coro di 10 mila casalinghe farneticanti.

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Non è un caso che la nuova Destra più becera – non certo quella della compianta Margaret Thatcher – spinga sull’antintellettualismo con tanta foga, definendo il culto del sapere come una pratica da comunisti – i quali, a onor del vero, hanno sempre e solo lusingato la cultura organica, non quella libera. Un vero regime lo si può costruire solo con il favore del popolo bue, rozzo e incolto – gli intellettuali aderiranno a questo, poi, in cambio di uno stipendietto da impiegati.

Chiunque abbia un minimo spirito di osservazione avrà capito, per intenderci, quale fosse il maggiore difetto di Kamala Harris, agli occhi del pubblico, se posta accanto a Donald Trump. Quest’ultimo ha l’aria del trafficone, del furbo, di quello che ci sa fare. La sua rivale sembra la classica signora della buona borghesia che, una volta tornata a casa dal lavoro, si siede in poltrona a leggere Victor Hugo in lingua originale e domanda al marito, con uno squisito accento da abitante di un lussuoso attico: “Tesoro, cortesemente, potresti mettere quel disco di Monteverdi in cui canta Magdalena Kožená?”. Il popolo, si capisce, un qualcosa di simile non te lo perdonerà mai. Mentre Trump ha ragione quando dice – ed è molto arguto nel farlo notare – che i suoi follower non diminuirebbero se si mettesse a sparare sulla Quinta Strada. Semplicemente lui, per come si pone, non restituisce a questi il senso spietato della loro inferiorità da subalterni.

Matteo Fais

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Telefono e WhatsApp di Matteo Fais: +393453199734

L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).

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Un commento

  1. In realtà, non è che il gap culturale fra Kamala Harris e Donald Trump sia così significativo.

    Va poi considerato che, secondo inveterato costume, mentre a destra i colti recitano la parte dei cialtroni, questi ultimi, a sinistra, recitano quella degli intellettuali.
    Volendone trattare casi concreti in terra italica, se ne potrebbe scrivere, più che un libro, un’enciclopedia…

    Credo la principale ragione dell’insuccesso della Harris sia da cercarsi nella sua abissale pochezza politica.
    Più ancora di questa, a decretare la vittoria del Signor Arancione è stata la sacrosanta voglia di liberarsi dalla fogna woke che ormai aveva ammorbato tutto il paese.

    Certo, poi magari gli esiti non saranno stati quelli sperati, ma il desiderio di cambiamento era più che comprensibile…

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