IL RAPPORTO DI CONSERVATORI E PROGRESSISTI AMERICANI CON LA LIBERTÀ (di Melania Acerbi)
Se si volge lo sguardo alla lunga catena delle epoche, ci si accorge di un movimento che ritorna con ostinazione quasi meccanica, come il moto delle maree che, anche quando sembrano ritirarsi, preparano già la prossima onda. Si tratta di quella “forza” che spinge gli uomini a trasformare la giustizia in dogma. Nessuna epoca ne è immune. In principio si tratta di un moto sincero, di un impulso che nasce da un bisogno di libertà o di redenzione; e tuttavia, nel momento stesso in cui questo slancio si irrigidisce in forma obbligatoria, esso degenera in un potere cieco, che non tollera deviazioni né pause. È un processo sottile, quasi invisibile, che si compie lentamente ma con esiti sempre simili: l’ideale diventa precetto, il precetto diventa obbligo, e ciò che era nato per liberare finisce per incatenare.

Non mancano nella memoria europea esempi che parlano da soli. Se si pensa alla Repubblica di Cromwell, si vede come un movimento nato con l’intento di purificare la religione e di liberare lo spirito si sia rapidamente convertito in un regime d’ordine e di sorveglianza, che nulla aveva da invidiare, nella sua durezza, alle monarchie assolute che voleva combattere. Ma non serve andare così lontano: basta guardare al Novecento, alle ideologie che promettevano l’emancipazione universale e si sono rivelate strumenti di oppressione. È sempre la stessa lezione che si ripete, con monotonia quasi crudele: quando la giustizia si presenta come verità unica, quando si arroga il diritto di parlare a nome del tutto, essa smette di essere principio universale e diventa strumento di dominio.
Nella società americana contemporanea, questa dinamica si manifesta di nuovo, anche se in forme inedite. Non si tratta più di partiti che si contendono il potere politico con programmi diversi; ciò che emerge è piuttosto uno scontro di visioni morali, ciascuna convinta di rappresentare non una parte, ma la totalità del vero. È un cambiamento che ha un carattere decisivo: non si discute più su come convivere, ma si stabilisce quale sia l’unico modo giusto di vivere. In questo spostamento del discorso politico verso l’assoluto si può già leggere il rischio maggiore, perché una volta che la verità diventa proprietà di una parte, ogni pluralità è condannata.

Il progressismo che oggi si raccoglie sotto la sigla woke porta in sé proprio questo tratto. Non si limita a denunciare discriminazioni né a proporre correttivi. Al contrario, esso si muove come una forza che vuole rifare il mondo dall’interno: riscrivere le parole, sostituire i simboli, ridefinire i comportamenti quotidiani. È un movimento che non conosce tregua, perché ogni residuo che non si lascia inglobare è percepito come una minaccia. Non basta affermare un principio: occorre occupare ogni spazio, colonizzare ogni ambito e ogni anima. La conseguenza è che il dissenso diventa impensabile. Lentamente, il wokismo si è insinuato negli atenei, nelle redazioni giornalistiche, nelle scuole, nelle aziende, finché ciò che è restato fuori da questa trama è stato visto con sospetto. Non propone, ma impone; non discute, ma giudica; non tollera la differenza, perché la interpreta come colpa. In questo modo, ciò che si voleva giustizia si è trasformato in inquisizione, e ciò che si proclamava uguaglianza si è rivelato omologazione.

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Vi è in questa dinamica un tratto ideologico riconoscibile: come i grandi sistemi totalizzanti del secolo scorso, il progressismo woke pretende di possedere il segreto della storia e di sostituire il trascendente. L’individuo, in tale visione, non è più persona ma funzione, non più centro autonomo ma categoria. Bianco o nero, oppresso o privilegiato, vittima o carnefice: non importa chi tu sia, conta solo l’etichetta che ti definisce. È una logica che non tollera eccezioni. Per questo, le chiese che ancora resistono, le comunità che persistono, le tradizioni che non si piegano vengono considerati nemici da abbattere. La loro sola esistenza costituisce un rifiuto radicale dell’ordine che si vuole imporre.
Il conservatorismo, nelle sue radici autentiche, nasce da un’altro terreno. Non si fonda sulla volontà di uniformare, ma sul desiderio di custodire. Non impone un modello unico, non ordina a nessuno di sposarsi, di avere figli, di frequentare la chiesa. Piuttosto, difende la possibilità che ciascuno lo faccia, se lo vuole. È un atteggiamento che conosce la logica della difesa, non quella della conquista. Custodire spazi di vita familiare, comunità religiose, tradizioni locali: non creare un mondo nuovo, ma impedire che venga cancellato quello che esiste. Qui vi è un pluralismo che non ha bisogno di proclami, perché si realizza nei fatti. È la consapevolezza che la libertà non consiste nell’imporre un modello, ma nel lasciare a ciascuno la propria misura.

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E tuttavia, nemmeno il conservatorismo è immune dalla tentazione di imporsi. L’assalto progressista ha provocato, in molti, una reazione speculare. Si è visto sorgere, soprattutto dopo l’ultima vittoria di Trump, un conservatorismo che vieta come l’altro vieta, che censura come l’altro censura, che impone come l’altro impone. La difesa si è fatta conquista, il custode è diventato conquistatore. È questo il punto più rischioso: quando la differenza originaria si perde e i due opposti si riflettono l’uno nell’altro.
Resta però, nonostante tutto, una differenza decisiva. Il progressismo non può convivere, perché ogni eccezione incrina la sua pretesa di totalità. Il conservatorismo, invece, può farlo, perché non ha bisogno di eliminare ciò che non gli appartiene per esistere. In questa divergenza minima, ma essenziale, si intravede ancora una possibilità di speranza: che il conservatorismo, se saprà restare fedele alla sua natura di custode, se non cederà alla tentazione della rivalsa, possa rappresentare ancora un orizzonte diverso.

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La libertà, infine, non appartiene a nessuno. Non è un possesso esclusivo, ma uno spazio fragile, sempre minacciato, che vive soltanto dove si riconosce il dubbio e il limite. John Stuart Mill lo aveva compreso, quando scriveva che sopprimere un’opinione significa privare l’umanità di una parte della verità.
Il rischio maggiore, oggi, non è dunque la polarizzazione in sé, ma la vittoria di un dogma. La libertà, negli Stati Uniti, può sopravvivere in uno spazio di fedeltà discreta al limite e al dubbio, che è l’unico luogo dove potrà ancora trovare rifugio. Non un rifugio assoluto, non una cittadella invulnerabile, bensì un ambiente fragile, come una bolla d’ossigeno in un mondo soffocante. Uno spazio da cui ripartire, ogni volta, per non smarrire del tutto la possibilità di convivere in libertà.
Melania Acerbi
L’AUTRICE
Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming).
Contatti: mel.acer@gmail.com