SCRITTORI ANTICOMUNISTI – ISMAIL KADARÉ TRA ORWELL E KAFKA (di Davide Cavaliere)
Simon Leys, nel suo memorabile saggio su Orwell, commentando gli infelici e infecondi tentativi di accostare l’autore di 1984 a Kafka, scrisse che «vivere in un regime totalitario è un’esperienza orwelliana; vivere in sé è un’esperienza kafkiana».
Le situazioni assurde e paradossali in cui può incappare il suddito di un regime totalitario − si pensi a quelle descritte con humor dallo storico Victor Zaslavsky (memorabile il caso di chi dovendo chiede in prestito un libro straniero deve prima presentarne la traduzione) − sono l’esito inatteso del rigore ideologico e della paranoia delle gerarchie al potere; al contrario, le incongruenze e i nonsensi dell’esistenza rimangono inspiegabili, affondati come sono nel più generale «mistero» della vita.

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È esistito, però, uno scrittore che è stato capace di unire Orwell e Kafka, rivelando come al fondo di un potere totalitario aleggi qualcosa d’ineffabile, assurdo, arcaico; un «mistero» che è il «mistero» del potere, opposto seppur intrecciato a quello della vita, esprimibile solo nella forma ambigua del mito. Si tratta del romanziere albanese Ismail Kadaré, scomparso nel 2024, la cui opera, per vastità e temi, rimanda immediatamente al «fratello balcanico» Ivo Andrić. Il testo in questione è La figlia di Agamennone, prima parte di un dittico che include anche Il successore.

Siamo a Tirana nei primi anni Ottanta, è il giorno della parata del Primo Maggio. Il narratore è un giovane modesto, liberale, decisamente (anche se in privato) contrario al regime, che lavora per la televisione di Stato, dunque sempre esposto alle imprevedibili purghe del regime; e sebbene già sfiorato da queste è stato inaspettatamente invitato a partecipare ai festeggiamenti dall’interno della tribuna d’onore del Partito. È anche l’amante di Suzana, che ha interrotto la loro relazione perché suo padre sta per essere scelto come successore designato del leader supremo e ha chiesto alla figlia di non mettere a repentaglio la sua carriera frequentando un uomo «compromettente».
La bella Suzana ha «compreso» e accettato il «sacrificio» impostole dal padre, ed è proprio questa parola, «sacrificio», che continua a echeggiare nella mente del protagonista, nel racconto in procinto di recarsi alla chiassosa e insopportabile parata, dove spera di poter scorgere, tra il brulichio di facce lividi, divise e mostrine, almeno il profilo dell’amata.

Il narratore riflette sull’opera di Euripide e sul sacrificio apparentemente volontario di Ifigenia compiuto dal padre, Agamennone, risoluto sovrano di Micene, per assecondare le sue ambizioni militari. Si lambicca il cervello attorno al racconto greco, lo fonde con il ricordo del dolore per la «decisione» di Suzana e alla sorte di Yakov, il figlio che Stalin lasciò nelle mani dei nazisti opponendosi con rigore a ogni scambio di prigionieri di guerra, nonostante fosse una pratica corrente. Perché questa ostinata volontà di «sacrificare» la propria progenie? Il narratore sa che la risposta è custodita dal «compagno Agamennone Atride, membro dell’Ufficio politico, capintesta di tutti i sacrificatori a venire».

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Poi, finalmente, dopo tanto arrovellarsi, la luce del mito viene a rischiarare l’enigma: «Se il capo supremo, Agamennone, aveva sacrificato la propria figlia, significava che non ci sarebbe stata pietà per nessuno. La scure era già sporca di sangue». E così Jakov, «sacrificato non perché affrontasse la stessa sorte di qualsiasi altro soldato russo, come aveva dichiarato il dittatore, ma al fine di far acquisire a quest’ultimo il diritto di esigere la morte di chichessia».
Chi comanda in un regime totalitario? Viene subito da rispondere: il «dittatore!», nulla di più facile, colui che con cinismo ha sollevato la scure sacrificale; oppure è quella oscura entità che, dai tempi della guerra di Troia, impone il lugubre scambio di sangue e potere?

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Il «sacrificio» di Suzana, «pur se celato alla vista», è dunque diverso, eppure contiguo, ai precedenti. Sebbene meno sanguinario, esso non può che annunciare una «nuova forma di terrore», un «inaridimento definitivo della vita. Di quella vita che, come il cactus in pieno deserto, era riuscita a fatica a concentrare in sé qualche ultima gocciolina». Stroncare la felicità e la vitalità della giovane, per far avvizzire il popolo tutto e garantirsi così il dominio su di esso.
Il narratore, terrorizzato e disorientato, torna a casa, ormai consapevole che «l’uno dopo l’altro, si mollano gli ormeggi come se fossero ultime speranze. La guerra di Troia è cominciata. Nulla più si oppone all’inaridimento della vita».
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.