NELLA VORAGINE VERTIGINOSA DELLA POESIA: INTERVISTA CON GIORGIA LEURATTI (di Giorgio Galli)
Giorgia Leuratti è poetessa intensa e consapevole. Non sempre le due qualità vanno insieme. In un articolo del 2023, Giorgio Ghiotti argomentava che mai prima d’ora, forse, s’era dato un così ampio numero di poeti specializzati, che si occupano di poesia anche nel mondo accademico e che hanno perciò strumenti più affilati della maggior parte dei colleghi di vecchie generazioni; e che eppure tutto ciò non si traduce in un poetare più fine e più sapiente, ma in un modo di far poesia quasi atletico, dove tutti gli strumenti vengono squadernati fino a trasformare la parola in parola al quadrato e la poesia in metapoesia di sé stessa – e, infine, nell’impossibilità di se stessa. Per contro, è facile reperire in rete una quantità d’articoli che affermano l’esatto contrario: che ci sono poeti come se piovesse, non sempre consapevoli degli strumenti della poesia, e che scrivono senza averne letta abbastanza. Se ne deduce che questa slavina di scriventi travolga nel suo rutilare autori di formazione più che mai eterogenea, che la grande palla rotolante ingloba sia i naïf che gli eruditi ed entrambi li annienta.

La voce di questa giovane poetessa, presente nella vita letteraria romana senza indulgere al presenzialismo, ha tutta la forza dell’identificazione tragica con la vita propria della gioventù, e il rigore di chi ha presente coloro che l’hanno preceduta senza cercare d’imitarli. La caratteristica della sua scrittura è la fisicità, la capacità di dare veramente corpo alle cose nominate, comprese le emozioni. Nulla è impalpabile nel suo mondo. La scienza ci ha insegnato da tempo dove le emozioni hanno sede, quali parti del cervello e del corpo si attivano, quali sostanze chimiche. Leuratti non ha formazione scientifica, e non si può dire che la sua parola, così visionaria, così plurale nel ricapitolare in sé la storia degli stili – s’incontrano gli uni accanto agli altri lemmi stilnovistici e audacie zanzottiane – sia una parola chirurgica, ma semmai asciutta e concreta, come concreta dev’essere la parola della poesia. Sempre vitale e sempre ancorata alla corporeità, la poesia di Sei un mistero blu (Controluna, 2023) non cerca il realismo, ma l’incarnazione del dire e ci riesce.

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Galli: David La Mantia, sempre attento agli aspetti formali dei poeti su cui lavora, scrive nella Prefazione che “i verbi e gli aggettivi feriscono”, e ne elenca alcuni: ruvido, perforante, incrinare, livido, lancinanti, trapassano, trapani, divampa, aggrovigliamo, rimordo, orgoglio, ricurvi, agghiaccianti. “Sono termini” scrive La Mantia “che, anche foneticamente, creano un sistematico fastidio, una atmosfera di angoscia. […] Eppure, a questo espressionismo potente, a questa durezza di suono, corrisponde una scrittura che si nutre […] di elementi della tradizione. Colpisce l’uso dell’apocope, classicheggiante, con l’eliminazione della vocale terminale del verbo all’infinito, colpiscono pronomi addirittura manzoniani (come ei). […] Colpisce l’uso dell’anadiplosi, di ascendenza zanzottiana (‘il sussulto che ribaltò il mio sussulto […] e ‘iridi perforano iridi’ […]”. La mia prima domanda è, se vuoi, provocatoria, perché ci sono scrittori e poeti che compongono con una precisa consapevolezza degli strumenti tecnici dispiegati e altri che sono guidati da un’urgenza espressiva “perforante”, per usare un tuo aggettivo, e solo a posteriori organizzano, o addirittura scoprono, tecnicamente, il proprio dettato. Tu a quale dei due gruppi senti di appartenere maggiormente? Organizzi la tua scrittura in base a un risultato che hai in mente oppure no? E, in entrambi i casi, a cosa corrisponde quello che La Mantia chiama, giustamente, “plurilinguismo”, a quali esigenze risponde?

LEURATTI: Tutta la mia poesia nasce da un’interferenza, dalla collisione, perlopiù involontaria, con un mondo altro, fulmineamente percepibile, che urta il microcosmo abituale interrompendone violentemente gli equilibri, ribaltandone le proporzioni. Questo pianeta irrompe nell’universo di segni che siamo abituati ad osservare, spalancando al suo interno un fondale, una voragine vertiginosamente più profonda: dallo spaesamento che ne deriva sorge l’urgenza di guardare, di sporgersi fino a precipitarvi dentro. L’atto della poesia si origina dunque da un movimento di caduta, è impossibile guidarne le rotte, eppure la possibilità di incorrere in quel precipizio nasce, credo, da qualcosa di anteriore, dal fluorescente presentimento di irriducibilità che inonda le possibilità della parola, dalla consapevolezza della sua duttilità, della sua inarrestabile possibilità di deformazione, estensione, reinvenzione, ricontestualizzazione. Ciò, di fatto, può dirsi vero solo nel terreno della poesia, che in forte misura coincide con il terreno dell’assurdo: l’atto poetico, in quanto atto libero, conduce il linguaggio fino al suo stremo, ne oltrepassa il limen, ne rovescia gli accostamenti, eppure, come ogni azione ribaltante, ha bisogno di un sostrato. Il complesso di figure retoriche, agenti sia sul piano del suono che su quello di significato, vanno a costituire un apparato tecnico che, per quanto non bastevole, rappresenta un retroterra significativo, una memoria che, laddove assimilata, può offrire dei riferimenti, nel momento in cui si è catapultati nei terreni dissestati del linguaggio; eppure, è quell’urgenza espressiva ad innestare la poesia, l’urgenza di restituire la stratificazione dei mondi di cui il poeta è testimone. Lasciarsi andare alla caduta, per riportarne lo stridore, l’ultrasuono, può condurre ad un linguaggio multiforme, spazio dialogico tra antico e nuovo.

GALLI: Il tuo libro si apre con questa dichiarazione: “Vi narrerò del tonfo del suono, del sussulto che ribaltò il mio sussulto / del ronzio notturno che senza misura, e tremendamente, / amai, fino al midollo”. E prosegue con altri due “Vi narrerò” (“Vi narrerò la meraviglia del suo placido dormire”, subito ribaltata in “dei sogni convulsi che i gomiti guidarono / in abbracci senza posa / dalle torsioni calde”, e poi “Vi narrerò della gatta dalle zampe di neve”). Si ha l’impressione che la tua non sia “una raccolta di poesie”, ma un percorso, sia pure interiore e simbolico, che da uno stato di angoscia e oscurità guida verso il raggiungimento di una precaria quiete. Ed anche, tuttavia, che lungo il percorso i due elementi siano perennemente mescolati, che angoscia e luce, affetto e tormento siano inestricabili. È corretto vedere Sei un mistero blu come una sorta di poemetto, dunque, di continuum di cui i singoli componimenti catturano alcuni momenti esemplari? Il mio compositore preferito, Leóš Janáček, s’inventò una musica in cui nostalgia, felicità, furore e pace rotolavano l’uno nell’altra, s’alternavano e arrivavano financo a sovrapporsi, in un’atmosfera che somiglia alla fotografia fonica della nostra psiche in un dato momento: un groviglio di stati dall’esito imprevedibile. Ti riconosci in questa concezione?

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LEURATTI: Mi sono accorta di come la mia scrittura si sia gradualmente avvicinata a un approccio maggiormente narrativo solo in un secondo tempo. In tal senso forse, Sei un mistero blu rappresenta il momento più epifanico, la fase di iniziale accorgimento. Pur non presentando un impianto puramente narratologico, tutto in lui protende alla narrazione di una storia, alla restituzione di un divenire, di un qualcosa che accade o che di fatto viene scoperto. Rispetto a Inchiostro, ove questa componente era forse embrionalmente visibile nell’atto di strutturazione del testo che ripercorreva quello proprio della tragedia greca (Prologo, Anti-Parodo, Episodi, Stasimi, Esodo), Sei un mistero blu concede spazio ad altri personaggi, reali, semi-reali o immaginari, e le loro voci simbolicamente soccorrono quella dell’io poetico che, sopraffatta dalle realtà-meteore che impatta, di tanto intanto si arresta, invoca aiuto. Credo dunque che questa connotazione sia presente – lo è in misura ancora maggiore in ciò che ancora non è venuto alla luce! – e che forse prescinda dal riscontro di un dinamismo, di un subbuglio, di una traiettoria, che connota la linfa di tutto ciò che, invisibilmente o visibilmente, esiste. D’altronde il germe stesso della parola, il ποιέω che sottende la ποίησις, chiama in causa un divenire, uno sviluppo, una storia. In primo luogo per me, ciò corrisponde al racconto di un atto di scoperta, quella di una realtà che eccede la realtà, di un universo di significanti, di ultrasuoni e infrasuoni, che lottano per trovare una forma che possa appartenergli. Il racconto di questa lotta, di questa contraddizione, è la radice iper-declinabile di tutto ciò che la poesia avverte necessità di narrare; una spinta irrequietamente vicina a quella di Bystrouška di Janáček, quando dice: «Sono stata allevata come una creatura umana».

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Galli: Nei tuoi versi, come nell’amore, tutto ha un corpo, tutto s’incarna: “s’illuminano le vertebre, di nuove intuizioni”, “la mia gola narra cose false”, “Con qual violenza strappò fiori /dal mio midollo”, “Accade il sonno, nei tuoi emisferi / accade”, “grida allora, scuoti le mie ossa!”, “più insulso appare il tuo verbo / ai miei timpani”, “Il tuo volto ribalta, le zolle della tenerezza”, “Fagociti i legacci dei nervi”, “e albergavan nel diaframma i singulti di membra congiunte”, “Aggredisco, con le unghie, gli spettri”. Anche il suono delle tue parole ha una consistenza corporea: “Rimordo parole / che a fiotti escono / dalle mie labbra”, “slega il vento / il tuo respiro”, “Avrei fiondato il mio sguardo / sul tappeto, di braci ardente, / lapidato / il fuido mortale del dubbio”, “Timpani tesi al tonfo plumbeo del tuo passaggio”, “Si frantuma il sospetto”. La tua scrittura segue foneticamente i moti di contrazione e distensione di un sistema unico di mente e corpo, evoca uditivamente cavità buie, conflitti serrati, slanci liberati oppure subito catturati. Non si tratta solo di figure di suono, di allitterazioni e così via: sono veri e propri scontri sonori, dissonanze che traducono conflitti con la massima evidenza. Un distico come “m’accompagni, fantasia forsennata / musa moira, tacito tatto” contiene un ritmo così serrato di sistole e diastole da mozzare il respiro. Al tempo stesso, io che ti ho sentita leggere posso testimoniare la pacatezza con cui dai la voce ai tuoi versi. Come si concilia – se si concilia – questo universo espressivo così conflittuale con la calma affettuosa con cui gli dai vita interpretandolo? E questa attenzione fonica è nata da un’esigenza del momento o corrisponde, ad esempio, a una tua formazione musicale oltre che poetica?

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LEURATTI: La poesia deve essere corpo, come ogni organismo vivo essa pulsa, stride, urla, ferisce, agisce come urto in ogni luogo, corpo o atmosfera in cui va a manifestarsi. Rendere nota questa sua carnalità è tra le cose che maggiormente mi preme: non si tratta di una contemplazione placida, di un ascolto passivo, ma di un’azione partecipante, suscettibile, attiva. Di conseguenza tanto chi scrive, quanto chi ascolta è chiamato a predisporsi ad uno scontro. Pur non essendoci una formazione propriamente musicale nella mia storia, da sempre esiste il teatro, un teatro entro cui in diversissimi modi sono stata sollecitata a predispormi come spettatore partecipante. Nel teatro, come nella poesia, esiste un insopprimibile continuum tra corpo e suono, tra presenza e respiro, in entrambi, così nella loro osmosi laddove si verifica, il fonema e il lessema hanno la stessa irriducibile importanza, le unità di suono e quelle di parola concorrono in egual misura alla restituzione di un qualcosa. Quando in Eliogabalo Antonin Artaud affermava che la poesia è molteplicità triturata e che restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l’ordine, risuscita dapprima il disordine, il disordine dagli aspetti infiammati, egli dava adito alla stessa magmatica contraddizione, quella tra angoscia e fluttuazione, tra incendio e creazione. Ho scoperto relativamente tardi quanto ciò fosse decisivo, così come da poco tempo ho iniziato ad offrire la mia voce a ciò che scrivevo: per lungo tempo ho preferito affidarmi a voci di altri, magari più esperte. Eppure iniziare a farlo è stato significativo: riscontrare cosa una parola possa innestare vibrando nella laringe e fondendosi al proprio universo immaginativo, come quella stessa parola possa produrre altro in chi ascolta, risuonando in altri personalissimi universi, come la fusione tra parola e corpo, si declini e agisca su forme e modalità differenti.

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Galli: Uno dei momenti più toccanti del tuo libro è la dedica: “A Jacopo, / mio immenso stupore, / mio amore dalle mani di luna”. È bellissimo descrivere qualcuno come “mio immenso stupore”, ma sono soprattutto le mani di luna a incuriosire, perché suggeriscono calore discreto, accoglienza cullante, una natura sognante e delicata. E la capacità di custodire l’intensità anche più feroce. Senza voler identificare scrittura e vita, ma forse i conflitti si risolvono solo nell’incontro, nel tesoro rappresentato dall’anima degli altri. E, nella tua poesia, c’è quasi sempre un “Tu”.
LEURATTI: Tra tutte le trasmissioni, i riferimenti, o trasferimenti di significato, che mi hanno visto partecipe, lo stupore è forse la più importante, un qualcosa che esiste nella mia vita da prima che io ne fossi effettivamente cosciente, una memoria antica, tramandata. Ad oggi posso affermare che essa sia stata decisiva anche per il mio iniziale approccio alla materia poetica e per le modalità attraverso cui tuttora continuo ad approcciarmi ad essa. In quanto alla dedica, fa riferimento al fatto che questo è in prima istanza un libro sull’amore o comunque, forse più veritiero, il racconto di ciò che l’amore provoca quando irrompe in uno spazio che non è pronto a contenerlo, con tutti i paradossi che ne derivano. Per quanto ne so l’amore e lo stupore si predispongono come forze inscindibili, l’una incendia l’altra così come se una manca, l’altra è suscettibile a disgregarsi. In forza di ciò, la dimensione dell’incontro – di per sé iper-declinabile, è presente, e lo è come accadimento continuo, come continua deflagrazione tra assenza e presenza, tra vuoto e pieno, tra spazio impalpabile e spazio aptico. La persistenza del tu, particella fondamentale di un qualsivoglia impianto dialogico, è parallelamente un luogo di accoglienza e un’apertura all’indeterminato. Il tu coesiste con l’indeterminato, e l’indeterminato ha in sé la concretezza e il mistero della materia lunare, vertiginosamente vicina e irriducibilmente lontana, tangibile e metamorfica..
Biografie
Giorgia Leuratti nasce a Roma nel 1994. Laureatasi in Lettere nel 2018, nel 2020 si diploma in Critica Giornalistica presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e diviene giornalista nel 2022. La sua ricerca poetico-stilistica si fonda sulla sperimentazione del linguaggio e sulla visione della scrittura come mezzo vitale di urgenza espressiva. Nel 2022 pubblica per Robin Inchiostro, sua opera prima, e nel 2023 Sei un mistero blu per l’editore Controluna.
Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato a Siena. Vive a Roma dove ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato La parte muta del canto (Joker, 2016), Le morti felici (Il Canneto, 2018) e Un quoziente di gioia (Fve, 2023). Scrive sulle riviste online “Morel, voci dall’isola” e “Niederngasse”.