LA GRAVITÀ DELLA SCHIAVITÙ IN AMERICA (di Melania Acerbi)
La schiavitù negli Stati Uniti continua a esercitare un peso morale ed etico senza eguali, nonostante appartenga formalmente al passato e nonostante l’umanità intera, in ogni tempo e in ogni latitudine, abbia conosciuto e praticato l’asservimento dell’uomo sull’uomo.
La tragedia della servitù americana rimane un trauma irrisolto, un crimine che ancora oggi scuote la coscienza collettiva del Paese e che suscita sentimenti contrastanti di vergogna, colpa, rivendicazione, desiderio di riscatto. Nel resto del mondo la schiavitù è stata ugualmente crudele e onnipresente (dalle piantagioni dei Caraibi agli harem ottomani, ai traffici transahariani, fino alle forme contemporanee di lavoro coatto in Asia o nel Medio Oriente), eppure essa non produce lo stesso scandalo morale, non sollecita la stessa passione riparatrice, non genera movimenti di massa capaci di scuotere la coscienza pubblica. Perché, dunque, la schiavitù americana, più di ogni altra, è percepita come un peccato imperdonabile, una contraddizione insanabile che, ancora oggi, modella la politica, la cultura, le relazioni sociali degli Stati Uniti?

La risposta sta anzitutto nella contraddizione tra principi e pratica. Nessun altro Paese si è definito fin dalla nascita come “terra della libertà”, nazione fondata sulla promessa universale dei diritti dell’uomo. La Dichiarazione di Indipendenza proclama che “tutti gli uomini sono creati uguali” e dotati dal Creatore di diritti inalienabili quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità. Quelle parole, allo stesso tempo, venivano pronunciate da uomini che possedevano altri uomini, che li compravano e li vendevano, li privavano dei legami familiari e della dignità personale. È questa frattura originaria a rendere la schiavitù americana qualcosa di più di una semplice istituzione storica: essa appare come il peccato originale della nazione, la macchia che ne contamina l’anima. Alexis de Tocqueville osservava già negli anni Trenta dell’Ottocento che “il più grande dei mali che minaccia l’avvenire degli Stati Uniti proviene dalla presenza dei neri sul loro suolo”: l’irrisolta questione della schiavitù costituiva un ordigno destinato a esplodere.

Un altro elemento distintivo è il bisogno stesso di giustificarla. Là dove altre civiltà hanno praticato l’asservimento come fatto naturale, in America si dovette elaborare un intero apparato ideologico per sorreggerlo. Si invocarono interpretazioni bibliche, come la maledizione di Cam; si produssero teorie scientifiche sull’inferiorità biologica degli africani; si arrivò persino a sostenere che la schiavitù fosse un bene positivo. Tutto questo non sarebbe stato necessario se non fosse esistita, alla base, un’idea già acquisita della dignità dell’uomo e dell’universalità dei diritti. È proprio l’obbligo di giustificare ciò che non poteva essere giustificato a rendere la vicenda americana così carica di conseguenze morali.

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Il cristianesimo contribuì a rafforzare tale contrasto. La fede, talvolta piegata a sostegno della schiavitù, fornì al tempo stesso le armi morali più potenti contro di essa. Nei sermoni degli abolizionisti, nei canti degli schiavi, nelle parole di leader come Martin Luther King Jr., la schiavitù fu denunciata come peccato prima che come ingiustizia. Il richiamo alla liberazione biblica, all’uguaglianza davanti a Dio, rese intollerabile ciò che altrimenti avrebbe potuto apparire come semplice prassi economica o tradizione culturale.
Va ricordata anche la specificità della schiavitù statunitense: non semplice servitù, ma riduzione razziale e cancellazione di identità. Orlando Patterson ha descritto questa condizione come “morte sociale”: lo schiavo non era solo privato della libertà, ma anche escluso dalla comunità umana. Questo tratto radicale spiega la lunga durata del trauma, ben oltre l’abolizione legale, e la sua capacità di influenzare ancora oggi i rapporti sociali e politici.

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Decisiva fu anche la costruzione della memoria. Negli Stati Uniti la schiavitù non è mai stata rimossa: è stata al centro di una guerra civile, di emendamenti costituzionali, di lotte decennali per i diritti civili. La segregazione legale che ne seguì, e il lungo cammino per superarla, hanno impedito che si potesse relegare quella storia in un passato lontano. Ogni generazione americana ha dovuto misurarsi con essa o col suo fantasma e da qui nasce la persistenza del tema, il suo riemergere costante nella vita pubblica.
Soggetti come Abraham Lincoln, Frederick Douglass o W.E.B. Du Bois hanno, inoltre, contribuito a fissare questa eredità. Lincoln trasformò la guerra civile in battaglia morale contro l’istituzione schiavista; Douglass denunciò l’ipocrisia della nazione che celebrava la libertà mentre teneva in catene milioni di uomini; Du Bois descrisse la “doppia coscienza” degli afroamericani, sospesi tra appartenenza e esclusione. Attraverso queste voci la schiavitù è diventata un fatto storico che rimprovera incessantemente la coscienza americana.

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Ed è qui che emerge il punto, forse, più paradossale: il peso enorme della schiavitù sulla coscienza americana è anche la prova della statura morale della civiltà occidentale. Il fatto stesso che l’Occidente non riesca a dimenticare, che si interroghi di continuo, che produca riflessioni, letteratura, cinema, filosofia su quel passato, testimonia che i valori moderni di libertà e dignità umana sono divenuti principi irrinuciabili. l’Islam non si tormenta per i mercati schiavisti di Zanzibar, altre civiltà hanno conosciuto servitù senza mai sentire il bisogno di giustificarla. Solo l’Occidente, e in particolare l’America, ha percepito la schiavitù come contraddizione intollerabile con i propri principi. È un paradosso crudele: proprio perché si è proclamata la libertà, la sua negazione diventa più insopportabile. Eppure, è questo tormento a segnare la differenza, a mostrare che l’Occidente, pur nei suoi errori, non può rassegnarsi a tradire i suoi valori.
La schiavitù americana, dunque, pesa così tanto perché ha incrinato dall’interno il mito fondatore della democrazia moderna, perché ha assunto una forma radicale e ideologica e perché è rimasta al centro della memoria collettiva; al tempo stesso, tale incapacità di dimenticare mostra che la civiltà occidentale ha posto la dignità dell’uomo come misura ultima di giudizio. È allora lo scandalo, più che la brutalità in sé, a rendere la schiavitù americana un tema eterno, capace ancora oggi di scuotere la coscienza di una nazione e di interrogare l’umanità intera.
Melania Acerbi
L’AUTRICE
Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming).
Contatti: mel.acer@gmail.com