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“IL MONDO CONTEMPORANEO? È UNA TRAGEDIA AL QUADRATO PERCHÉ LA VITA NON È MAI DAVVERO TRAGICA”: INTERVISTA AD ANTONIO SANGES (a cura di Giorgio Galli)

C’è una sorta di furia nelle pagine di Distensione del destino, ultimo lavoro poetico di Antonio Sanges uscito quest’anno per Ensemble, con la prefazione di Silvio Raffo. “Io, al mondo nuovo non cedo” proclama infatti l’autore, ma la sua convinzione più profonda sembra quella che l’antico è più nuovo del nuovo: “Se dico che resto un uomo di ieri, dico sono io l’uomo nuovo, dico / resto con il maestro antico”. In un orizzonte popolato di dei eppure privo di dialogo con essi -”Ascolta pure il pianto / degli dèi, / loro non ascoltano il tuo canto”- l’autore agita la sua febbre iconoclasta contro i simboli del contemporaneo e rivendica la sua appartenenza a un orizzonte diverso, fatto di tradizione, di mito e soprattutto di letteratura e pensiero, in breve di una cultura umanistica che sembra non trovare cittadinanza nel discorso del presente: “Ancora credo nello spirito / nel lauro e nel mirto. / So io anche il mio mondo / alla deriva / e la lasciva / tentazione di cedere al disastro. / Navigo a vista: / le mie epiche ossessioni / non si trovano in natura / ma nella mia cultura. / Gettata l’ancora nel mare delle tradizioni / partiremo alla ventura”. È forse pensando all’orizzonte della cultura, alle sua possibilità di rinnovarsi, che l’autore può dire “Grande è il cammino degli uomini. / Grande è il futuro che hanno davanti”. Perché, se un futuro gli appare possibile, il presente gli ispira solo sentimenti di rivolta: “io sono un graeculo nell’impero / romano / io sono l’ultimo ciarlatano / io sono l’ultimo essere umano / io vedo chiaramente / io vedo l’avvenire / io vedo il barbaro alle porte / io vedo sprofondare / nell’oblio / fato, mito e morte. / Ci si agita per niente / ma è nel nostro sangue. / Finalmente / un giorno in Occidente / un passante ascolterà / il canto delle Muse / e l’Alleluia nelle Chiese. / Non potrà capire perché / abbiamo lottato. / Non potrà sapere / che cosa abbiamo perduto”. C’è qualcosa di ossessivo in questo perpetuo scagliarsi contro, in questo proiettare le immagini dilatate e mitizzate di un grande passato e di un presente miserabile: la rivolta produce una stasi iperattiva, una motricità del pensiero e del sentire tanto intensa quanto avvitata a una sorta di eterno ritorno dell’uguale: “Sempre a Itaca ritorni / sempre a Itaca ritorni”. Una rabbia senza orizzonte che si arresta di fronte agli spettacoli della natura, e in particolare di paesaggi meridionali in cui il mare rappresenta tanto l’elemento vitale quanto l’origine, il sonno amniotico. L’elemento d’interesse della sua poesia sta nel modo in cui convoglia questa sensibilità convulsa, questa irreconciliabilità con l’attuale in una scrittura classicheggiante ma rotta da tensioni frequenti, in un’armonia che resiste alle pur vistose fratture e che recupera un rime, assonanze, omoteleuti come altrettanti “elementi del disastro”, per dirla con Alvaro Mutis. È nel rapporto col paesaggio piuttosto che con l’umano che nascono gli slanci di un vitalismo disperato. Si tratta però di un antropizzato, o meglio culturalizzato, paesaggio vivo vissuto attraverso la lente del paesaggio letterario. Dunque non c’è conciliazione possibile in questo giovane poeta che cerca l’umano attraverso il non umano perché nell’umano non trova umanità.

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Galli:Intanto vorrei chiederti il significato della dedica: “A Celia, fatalmente”. È evidente che l’associazione tra il “destino” del titolo e l’avverbio “fatalmente” non può passare inosservata. Non voglio entrare nello specifico e chiederti se si tratta di una figura mitica o reale, ma colpisce questo nome femminile anteposto a una raccolta che, nella prima parte, pullula di figure di padri e di dei: “Mai conoscemmo / la fiamma antica / dei padri, / mai alzammo al cielo / lo sguardo muto / credendo di scorgere / il caldo cenno / di un dio”, scrivi. E ancora: “Vidi il padre spirituale / e l’affiliato a una setta strana. / Vidi poi / il derviscio / l’eremita / il santo / uomo palinsesto del mondo / che vide l’inferno nell’altro / e vidi che il suo orizzonte era il cemento del mondo, / l’orizzonte l’inferno di asfalto”.

Sanges: L’incontro con la Celia reale avvenne a Sorrento; diventa fatale come incontro con un principio femminile armonizzante e, in una logica nietzschiana di amor fati, è necessario in un percorso esistenziale. Inoltre, Celia è la filippina che chiama Montale per avere notizie della moglie morta (vedi Montale, Saturae): il libro cerca un contatto con il mondo classico, morto, e il principio femminile è il contraltare vitale al principio maschile razionale. Il mondo della prima parte del libro è proprio il mondo occidentale, razionale e analitico: maschile. Con un atteggiamento prossimo a quello di Cioran, sento la prossima fine della mia civiltà, ma al contempo ci sono visceralmente dentro. Parte di ciò è dovuto ad una massiccia presenza, nella mia forma mentis, di un pensiero maschile, analitico e razionale, paradossalmente limite ed elemento di superiorità. Il superamento del limite e della stagnazione claustrofobica del principio maschile si realizza con l’abbracciare il principio femminile, più creativo, vitale e semplice. Esso diventa elemento superiore perché dichiara senza spiegazione il principio della superiorità della vita, sic et simpliciter, rispetto alla fredda e profonda razionalità maschile. Nella seconda parte domina l’immagine del mare, immagine femminile, e la poesia Syrrentum è una favola mitopoietica con protagonista proprio una donna sirena, che peraltro non è minaccia per l’uomo. Ancora, tutto ciò risente della teoria dell’Übermensch nietzschiano e della necessità artistica dell’unione dei principi maschile e femminile. Aggiungo però che io sono sensibile a un sentimento di longing, anche in termini letterari, e funziono con la presenza tangibile del principio femminile. Mi sembra indicativo che nelle opere di D’Annunzio siano presenti delle donne e che nel superomismo dannunziano pare non sia contemplato un oltreuomo solitario. Ancora, una delle (assurde?) convinzioni letterarie che mi si sono istintivamente radicate sin dall’infanzia è che solo un uomo fosse in grado di comprendere istintivamente alcuni romanzi e, viceversa, altri solo una donna. Due esempi: Il giovane Holden e Cime tempestose.

È uscito il dodicesimo numero di “Il Detonatore Magazine”: https://www.calameo.com/read/00774819711c36dcf8adc

GALLI: Negli ultimi versi che ho citato poco fa si percepiva una contrapposizione quasi frontale fra un passato mitizzato, rappresentato con gli attributi dell’aere perennius, e un contemporaneo visto non solo come transeunte, consumato, esausto, ma anche come infernale: sembra tu contrapponga le categorie del sacro – un sacro laico, culturalizzato, il sacro di Eliade e Kereny – a un’altra categoria altrettanto mitica, stavolta ripresa dal cinema: quella della “giungla d’asfalto”. È, insomma, il tuo, un ragionare per mitologemi. Poco più avanti scrivi: “Sono stato chiamato alle armi. / Sono stato chiamato alla fede. / Sono stato chiamato alla gloria. / Ma la mia epoca non è ancora sorta / perché io nasco dalla storia / e la mia storia è morta. / Io sono l’erede degli eredi / degli epigoni l’epigono”. Ho l’impressione che ci sia una differenza radicale tra lo scrittore di ieri e quello di oggi. Ieri lo scrittore diceva “Ho qualcosa di nuovo e inaudito da dire e voglio che tutti voi la ascoltiate”; oggi dice “Tutto è già stato scritto, scrivo per restare aggrappato a questa nave”, che è la nave dell’umanesimo occidentale nel momento in cui cola giù. Altrove sei ancora più esplicito: “Io amo la mia civiltà di un amore violento” è l’incipit di una poesia intitolata Roma, e un altro componimento lo chiudi addirittura affermando “Oltre l’Europa non vedo orizzonte”. Mi sembra che la tua scrittura muova esattamente da queste considerazioni e che da lì muovano anche la scelta stilistica di una lingua classicheggiante, piana ma con impennate auliche simili a tentativi disperati di attingere un sublime che non c’è più, e la scelta di una versificazione basata su continui enjambements, come fratture non tanto del discorso ma del canto, un canto difficile da recuperare. Puoi confermare o smentire questa mia ipotesi interpretativa?

Sanges: Confermo decisamente ed elaboro oltre. La desacralizzazione del mondo contemporaneo è vissuta come una tragedia, perché determina la crisi e l’assenza di valori saldi a cui fare affidamento. Più sottilmente, è una tragedia al quadrato perché la vita non è mai davvero tragica. Solo l’arte lo è. Ma le chance che nasca un altro Shakespeare o un altro Eschilo sono poche, per ragioni tecniche: è anche importante notare che nel libro non ho un atteggiamento direttamente polemico. Intendo dire che l’esaurimento delle possibilità di fare dire qualcosa al linguaggio, per dirla con Cioran, il fatto che le parole siano “logore”, troppo usurate, determina che sia difficile mostrare compostamente qualcosa di profondo in arte. Per questo c’è una sezione di poesie verso l’inizio che riflette sul linguaggio stesso, e che risente di Wittgenstein. Allora, la letteratura moderna è una letteratura superficiale, nel senso che ho proposto nel mio saggio su Beckett (Les jeux sont faits: la cultura della superficie). Dato che i problemi profondi, tradizionali, sono irrisolvibili e che il linguaggio è inadeguato, gli autori possono affrontare temi superficiali, in una sorta di estetica del chiacchiericcio. Ora, la parola poetica può forse ancora dire l’indicibile, per usare dei cliché ed è qui che credo che mi allontano dalle soluzioni più avanguardistiche della poesia contemporanea: resto in definitiva nella storia e nella tradizione. Come noti, la lingua classicheggiante e a tratti aulica vuole proprio suggerire il difficile recupero del canto. Anche se è impossibile, si deve fare. La poesia Congedo termina, infatti, con “Ma disperare non è dato. / Lottiamo. / è il nostro fato”. Oltre agli enjabement, operano in questa direzione alcune scelte metriche inusuali. Ci sono ad esempio degli endecasillabi non canonici, con dialefi e con dieresi di eccezione su ïo, a sottolineare la difficoltà del recupero del canto e della tradizione, e dell’io stesso. Esempio: “ïo sono l’ultimo essere umano”.

È uscita la seconda raccolta poetica di Matteo Fais, Preghiere per cellule impazzite (Connessioni Editore, collana “Scavi Urbani), ed è disponibile in formato cartaceo e ebook:
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Galli: A un sentimento quasi ossessivo di rivolta fa da controcanto, nei tuoi versi, il ritmo immutabile della natura. “Il vostro monumento eretto a voi / è un’eco tombale / un cimitero sconfinato / larve dell’Occidente / dissennati segugi sanguinari / in catastrofe fatale / la rivolta è sul ciglio del mio mare”; “Le onde sconquassano il mare, / ma il mare è sempre uguale”; “Ciò in cui credo è questo: / oltre la tragedia delle vette / tutto è stanco / tutto si piega. / Il tempo va avanti. / Io anche. / La vetta resta”. Silvio Raffo, nella Prefazione, fa riferimento al topos letterario della natura matrigna e indifferente. Io invece trovo che sia consolante. La natura muta sempre ma torna sempre in equilibrio, e le nostre vite sono solo un frammento di tutta la vita che c’è, e del suo equilibrio. In una visuale non antropocentrica, è rassicurante: possono scoppiare bombe e rivoluzioni, può sparire tutto ciò che conosciamo come civiltà, ma resteranno i fiumi, gli alberi, i laghi, gli uccelli canteranno ancora.

Sanges: L’osservazione è interessante. Molto banalmente, premetto che il topos della natura matrigna e quindi il pessimismo derivano anche da Leopardi. Però sì, la natura è consolante. È la culla da dove nasce l’uomo e dove certamente sa che può tornare e lo spirito umano certamente si rigenera ritornando agli elementi naturali: fiori, vette, mare. Con essi si identifica e il paesaggio, come nota Silvio Raffo nella prefazione, diventa paysage d’ame. In senso spirituale, l’uomo torna a casa nella natura. Preciso che non sto parlando di panteismo o associandomi a correnti religiose o mistiche: la notazione è d’obbligo perché esiste una dialettica tra la civiltà e la natura, e la civiltà che descrivo è la civiltà classica ed europea, ovvero la civiltà pagana e cristiana, fatta di dèi e di un Dio. La questione è dunque complicata dalla presenza di una natura vergine che convive con una civiltà, pagana e cristiana, da cui io vengo e che, nonostante tutto, sento nelle mie radici. Anche di qui, la difficoltà della pacificazione e di un abbandono totale alla natura: una visione non antropocentrica diventa una visione non umanistica, diventa una visione consolante. Ma la perdita della mia civiltà resta la perdita della mia civiltà. In ogni caso, la poesia Umano viene dopo la poesia Congedo, che è una delle più marziali, combattive e dentro alla civiltà. Ed è indubbiamente un testo pacificatorio che si apre, sì, a una visione non antropocentrica. È una sorta di sguardo dal futuro sull’umanità e c’è, non solo qui, il suggerimento del ridimensionamento delle lotte umane (personali e collettive) rispetto alla grandezza della natura. E in Distensione del destino, c’è la fondamentale immagine della radura, di derivazione heideggeriana, e forse in filigrana la consapevolezza che l’autenticità non si trova nella civiltà. Aggiungo peraltro che scrivo la maggior parte dei miei testi in natura come se dovessi mettere tra parentesi la civiltà per scriverli.

Terza uscita per la collana “Scavi Urbani”: Il cielo è uno straccio sporco nella stretta della materia, di Luca Parenti (prefazione di Matteo Fais). Disponibile in formato cartaceo ed ebook:
(cartaceo 10 euro)
(ebook 5 euro – gratuito per gli abbonati a Kindle Unlimited)

Galli: La forza vitale, l’elemento di speranza nel tuo libro è sempre associato alla visione di un Sud: parli addirittura di “fede meridionale”. Vorrei chiederti in che rapporto è questa “fede” con le visioni nicciane, dato che a più riprese nomini Zarathustra, e col “pensiero meridiano” di Camus. Stralcio da un articolo di Greta Esposito per “La chiave di Sophia”: “Se si ammette una realtà e un pensiero senza mediazioni, si tradisce la realtà, che invece è multiforme e dotata di mille sfumature che non si possono semplificare e banalizzare in visioni ‘assolute’. È proprio la coscienza di vivere all’interno del ‘limite’ ciò che abbiamo smarrito e che dovremmo ritrovare:  ideali come la giustizia e la libertà sono realizzabili a condizione di perdere il loro carattere assoluto, trovando un limite nel confronto dell’una con l’altra. Ciò che può essere realizzato, infatti, mantenendo integra la dignità e la libertà dell’uomo è solo un’approssimazione al regno della giustizia perfettamente compiuto, ovvero una giustizia solo relativa. […] Il pensiero meridiano è l’espressione della tradizione libertaria. I totalitarismi del Novecento, influenzati dal pensiero tedesco, hanno sacrificato la natura e la bellezza in nome dell’azione e della potenza, affermate attraverso la dismisura”. In altre parole, il pensiero meridiano è la riappropriazione delle ragioni della “vita” di contro ai grandi sistemi e alla loro possibile degenerazione in dogmatismi e assolutismi. E tu, a un certo punto, scrivi: “Potrei nominare esattamente / cose che non ho / mostrare nomi che non so. / Ma sarebbe inesatto sostenere / che non posso dire / alcunché: / ancora parlo / ancora scrivo / ancora vivo”.

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Sanges: La contrapposizione Nord-Sud è nietzschiana, e io resto fondamentalmente un nietzschiano. La fede meridionale è la fede (non meditata, non dimostrata) nella vita, e l’allontanamento dalle astrazioni ‘nordiche’ e profonde della filosofia che sono culminate nel pensiero tedesco dell’Ottocento, e che portano ad una depressione della vita senza generare un aumento effettivo della conoscenza. Infatti, pare che la filosofia sia in un cul-de-sac, e i versi che citi alla fine si riferiscono anche alla possibilità di continuare a trovare le parole adatte e a vivere oltre le elucubrazioni mentali. Il motto nietzschiano il faut méditerraniser la musique è quindi da me abbracciato in una ottica di ricerca di maggiore immediatezza e solarità, e vigore estetico, quale che sia il tema trattato in letteratura. Lego inoltre strettamente i pensieri di Leopardi sul Sud a quelli di Nietzsche: ad esempio, quelli dello Zibaldone in cui parla della maggiore fattura della malinconia dei poeti meridionali, come Virgilio, rispetto a quelli settentrionali, ad esempio inglesi. Com’è noto, Nietzsche era tedesco. Io sono nato in Basilicata e tuttavia ho sempre avuto una ‘postura’ nordica e dei tratti ‘germanici’ nel pensiero, ovvero una tendenza all’elucubrazione filosofica, e ciò opera attivamente nella contrapposizione. Ancora, una poesia, L’alba è antica, dialoga con Rocco Scotellaro, nato a Tricarico, mio paese natale, in modo agonistico, giacché per me la ‘fede’ meridionale, appunto, è questione nietzschiana e quindi primariamente estetica. La flessibilità meridionale è, ancora, nietzschianamente un antidoto alla rigidità dell’ordine nordico. Camus è un mio autore di riferimento e L’été è un libro che amo molto. Noto però due cose: la contrapposizione al pensiero tedesco e ad Heidegger, da cui fondamentalmente mi pare derivare l’interpretazione di Greta Esposito non è nelle mie corde, per una questione di indole (per fiuto, non sono un meridionale integrale); anche per quello che dicevo rispondendo alle domande precedenti, il mio rapporto con la civiltà occidentale, erede di quella romana, è ambiguo. Dunque, l’idea di Camus della dimenticanza da parte degli occidentali della bellezza mediterranea dei Greci mi trova in posizione ambigua. In termini più generali e oltre l’estetica, il pensiero meridiano certamente è un’affermazione della vita.

Biografie

Antonio Sanges (Tricarico 1991), vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia Penne d’oca (Lithos 2015), Poesie in itinere (Controluna 2019) e Distensione del destino (Ensemble 2025), e il saggio di ermeneutica Les jeux sont faits: la cultura della superficie. Beckett e il teatro della crisi (Carla Rossi Academy Press 2023).

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato a Siena. Vive a Roma dove ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato La parte muta del canto (Joker, 2016), Le morti felici (Il Canneto, 2018) e Un quoziente di gioia (Fve, 2023). Scrive sulle riviste online “Morel, voci dall’isola” e “Niederngasse”.

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