IL CASO DELLA FAMIGLIA NEL BOSCO: I FIGLI NON SONO UNA PROPRIETÀ DEI GENITORI (di Viviana Viviani)
Se un tempo mi avessero detto che sostenere il diritto dei bambini alla scuola, alla sicurezza, a una normale socialità con i coetanei, sarebbe diventata una posizione “coraggiosa e scomoda”, non ci avrei mai creduto. Eppure, negli ultimi mesi, la cosiddetta “famiglia nel bosco” è stata trasformata dai media e dai social in un simbolo di vita autentica, libera dalla corruzione della modernità, al punto che chiunque timidamente osi un diverso parere viene immediatamente additato come conformista e schiavo del sistema.

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In breve, il capanno nel bosco è diventato la nuova “casa nella prateria”, con un crescente numero di sostenitori che rivendicano il diritto di Catherine e Nathan, coppia britannica istruita e benestante, residente in Abruzzo, a far vivere i propri figli — due gemelli di sei anni e una bambina di otto — in condizioni pressoché ottocentesche: senza acqua corrente, in cinque in una stanza, con un bagno a secco in giardino, senza controlli medici regolari né vaccinazioni e, soprattutto, senza scuola né altre attività con coetanei. La loro socialità si limita a poche famiglie selezionate, accomunate dallo stesso ideale di vita naturale. Ma un’intossicazione da funghi potenzialmente mortale li ha portati all’attenzione dei servizi sociali, perché la natura, a volte, è matrigna, e allora bisogna ricorrere alla cattivissima tecnologia.
Tra le altre cose, è curioso come l’adorazione per la famiglia del bosco sia diventata un fenomeno bipartisan: a sinistra, c’è chi vi legge un esempio di resistenza ecologista anticapitalista e vagamente fricchettona; a destra, la si esalta come baluardo contro obblighi vaccinali e “scuola gender”.

Ora che si è avuto notizia della decisione del giudice di trasferire i bambini, insieme alla madre, in una casa protetta per un periodo di osservazione, i social hanno immediatamente individuato il capro espiatorio di turno: gli assistenti sociali, ormai narrati come figure demoniache che irrompono nelle case in piena notte per sottrarre bambini felici a genitori amorevoli.
Ma siamo certi che questa ondata emotiva tenga conto di tutti gli elementi? E non sono forse un po’ troppi, i difensori entusiasti della famiglia del bosco, per non sospettare l’ennesima forma di anticonformismo conformista?
Vediamo le motivazioni del giudice. Si parla di “pericolo per l’integrità fisica derivante dalla condizione abitativa”, a causa dell’“assenza di agibilità e pertanto di sicurezza statica, anche sotto il profilo della prevenzione incendi e delle condizioni di igiene e salubrità dell’abitazione”, ma altrettanto grave è “la deprivazione del confronto fra pari”, cioè la mancanza di una vita sociale regolare con coetanei. La vita di relazione è infatti sancita dall’articolo 2 della Costituzione tra i diritti inviolabili dell’essere umano e, in un minore, la sua mancanza può portare in futuro gravi conseguenze psichiche.
Premesso che gli assistenti sociali e i giudici del Tribunale minorile sono esseri umani e possono sbagliare, difficilmente adottano misure drastiche senza motivo. Anzi, la cronaca dimostra il contrario: spesso sbagliano per difetto, nel non agire, perché sanno bene che allontanare un bambino è un trauma profondo e rappresenta davvero l’ultima risorsa. E sanno anche che, quando poi accade la tragedia, si dà la colpa a loro. In questo caso, ad esempio, hanno proposto per un anno intero aiuto, supporto, una casa, un piano condiviso educativo e sanitario. A rifiutare ogni minimo compromesso sono stati i genitori, con fermezza, un certo disprezzo e la certezza incrollabile di sapere, soltanto loro, il bene dei loro figli.

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Dalle loro dichiarazioni televisive abbiamo appreso che i bambini vengono educati in unschooling, una forma estrema di homeschooling che ignora programmi e valutazioni, affidando al bambino la libertà totale di decidere cosa imparare e quando, attraverso esperienze quotidiane più che di studio. I genitori sostengono inoltre che i figli non necessitano di un medico perché “stanno sempre bene”, e che un vaccino — non si sa quale — è stato sufficiente.
Successivamente, il loro avvocato ha cercato di correggere il tiro: sarebbe comparso un pediatra “da qualche mese”, una misteriosa insegnante molisana (del resto, come potrebbero i genitori insegnare l’italiano, se lo parlano loro stessi in modo approssimativo?) e un poco convincente certificato di idoneità scolastica rilasciato da una scuola steineriana privata di Brescia.
Ma al di là della vicenda di questa famiglia, che in qualche modo una soluzione la troverà, anche perché sono benestanti e i soldi risolvono sempre una buona parte dei problemi – male che vada cambieranno di nuovo Stato, cosa che hanno già fatto più volte, trovando sempre difficoltà di accettazione del loro stile genitoriale, quindi no, non è “colpa dell’Italia” –, a preoccupare davvero è la reazione di coloro, e sono tantissimi, che li stanno idolatrando come un modello da imitare.
Si parla di petizioni, di manifestazioni, di diritti da difendere. Ma quali diritti? Diritto a non avere un bagno, una doccia, una propria stanza, un pediatra, dei compagni di studio e di gioco? “I bambini, pensate ai bambini!” diceva un bellissimo meme de I Simpson. E qui di che diritti stiamo parlando, dei bambini o dei genitori?

Come sempre i social sono il pensiero scritto del nostro tempo e fanno emergere la verità: molte persone stanno proiettando su questa storia le loro paure e il loro risentimento verso le istituzioni: “Ai tempi dei nostri nonni si viveva meglio”; “Io non avevo il bagno in casa ma sono cresciuto bene lo stesso”; “A scuola ci sono i bulli, meglio a casa”; “Per crescere bene i figli basta l’amore”; “E allora i rom?”; “E allora i testimoni di Geova?”. Un misto di rimpianto per la gioventù, nostalgia di epoche non vissute – ah, il medioevo, come ci si divertiva, certe epidemie di colera, bei tempi! –, mito del buon selvaggio e benaltrismo a camionate. E poi tanta paura: di una tecnologia sempre più difficile da capire, che fa sentire controllati e inadeguati. Paura degli smartphone, dell’intelligenza artificiale, del futuro. Sentimenti comprensibili, per carità, ma buttare a mare tutti i progressi dell’ultimo secolo non è certo la soluzione.

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La scuola pubblica, con tutti i suoi limiti, resta una delle più grandi conquiste civili. Una conquista per cui hanno combattuto proprio quelle generazioni che magari il bagno in casa non l’avevano, e non certo per scelta. È il luogo dove i bambini imparano non solo a leggere e scrivere, ma a confrontarsi con la diversità: di classe sociale, di etnia, di provenienza, di pensiero. E poi a litigare, a fare pace, a prendere le prime cotte. A gestire la gratificazione così come la frustrazione.
Inquietante poi è la perdita diffusa di fiducia nella sanità. È ovvio che la gestione caotica del Covid abbia lasciato delusioni e polemiche, ma da qui a rifiutare la medicina ce ne passa. I vaccini pediatrici, testati ormai da decenni, non sono un complotto: sono il motivo per cui oggi la mortalità infantile è quasi inesistente.
Una delle proiezioni più diffuse poi riguarda il lavoro. Come sarebbe bello lavorare poco come loro, vivere senza stress, senza turni, senza orari, senza capi! E certo, sarebbe bello per tutti. Il lavoro è spesso totalizzante, precario, mal pagato. Sottrae tempo a sé stessi, agli affetti e alle passioni. Ma attenzione: non è il bosco a liberare questa coppia benestante dal troppo lavoro. Sono i soldi, che consentono loro di godersi questa romantica e finta povertà.

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La tecnologia, infine, non è il demonio. La si può vedere anzi come una delle più alte espressioni dell’intelligenza umana e non di rado salva la vita, ad esempio quando mangi i funghi sbagliati. In ogni caso, non serve vivere in una capanna per non dare uno smartphone a un bambino di otto anni. Si può vivere in campagna, con l’orto e gli animali, in una casa sicura e attrezzata, e godere del meglio sia della natura che della civiltà.
Ma il punto più delicato rimane la visione totalizzante che queste persone hanno della genitorialità. A tal proposito, basta dare un’occhiata al blog di Catherine Birmingham, la madre, sedicente coach spirituale, guaritrice e maestra di vita – blog su cui, tra l’altro, ci sono quasi più foto dei figli che su quello della Ferragni – in cui afferma chiaramente di ritenere la scuola e la socializzazione in generale un elemento che recide il naturale legame tra genitori e figli. Il loro concetto di libertà viene quindi a coincidere con isolamento e simbiosi.
Se fossero solo i due adulti non ci sarebbe alcun problema, ma il genitore che pensa “mio figlio è mio e lo cresco come voglio” non sta esercitando libertà, sta abusando del proprio ruolo e ignorando un principio fondamentale: i figli non sono una sua proprietà. Ogni genitore, per forza di cose, trasmetterà ai figli la propria visione della vita: le idee politiche, la religione, i valori, e anche inevitabilmente le mancanze, i limiti, i traumi. Proprio perché ha già così tanto potere, non deve essere l’unico punto di riferimento nella vita del figlio.
Il genitore che pensa “il mondo è cattivo, devo salvare mio figlio” oppure “lo renderò diverso e speciale” (sottinteso, come me, o come un mio ideale), spesso non sta proteggendo il figlio, ma sé stesso. E corre il rischio di crescere un bambino che, nel migliore dei casi, sarà ribelle e arrabbiato; nel peggiore, profondamente inadatto a vivere nel mondo reale.

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Si può criticare il sistema, si possono cercare alternative, si può perfino scegliere di vivere in un bosco. Ma quando ci sono dei bambini, il diritto all’autodeterminazione degli adulti non può prevalere sul loro diritto alla sicurezza, alla salute, alla socializzazione e all’istruzione.
In questa vicenda non è in discussione la libertà dei genitori di fare scelte coraggiose o non convenzionali. È in discussione una domanda più semplice e più profonda: questa libertà, così come è esercitata, protegge davvero i bambini, oppure tutela solo l’egocentrismo e le insicurezze degli adulti?
Auguriamo quindi il meglio a questa famiglia, che potrà sicuramente riunirsi, se solo i genitori si renderanno conto che i loro figli appartengono alla società molto più che a loro stessi, e che a volte l’amore è proprio rendersi conto che il proprio amore non basta.
Viviana Viviani
Viviana Viviani è nata a Ferrara e vive a Bologna. Lavora come ingegnere, ma coltiva da sempre la passione per la scrittura. È giornalista pubblicista e ha scritto sulle riviste “Pangea news”, “Hic Rhodus” e “L’Intellettuale Dissidente”. Nel 2019 ha pubblicato la raccolta poetica Se mi ami sopravvalutami, con la quale ha vinto i premi Silloge edita Lago Gerundo e Opera prima Violani Landi. Nel 2023 ha pubblicato la silloge La bambina impazzita con Arkadia Editore, nel 2025 la silloge Lui nella collana Scavi Urbani. Nel 2021 ha collaborato con il cantautore Immanuel Casto all’album Malcostume.