COSA CI INSEGNA “AUTO DA FÉ”, DI ELIAS CANETTI, SULLA REALTÀ CHE STIAMO VIVENDO (DI DAVIDE CAVALIERE)
Ci sono libri che, nonostante la fama, non riescono a conquistare che pochi lettori. Uno di questi è certamente Auto da fé di Elias Canetti. Sebbene sia pubblicato da Adelphi e abbia ricevuto gli omaggi del suo fondatore, così come quelli di Susan Sontag e Claudio Magris, resta un romanzo solitario, creazione irripetibile di una infrequentata divinità dai folti capelli grigi. Auto da fé, come ha scritto Magris, procurava imbarazzo ai recensori, che «non sapevano da che parte prendere quel libro». Romanzo grottesco quanto un dipinto di Otto Dix, si presenta suddiviso in tre sezioni: «una testa senza mondo», «un mondo senza testa» e infine «il mondo nella testa».

Nella prima parte ci viene presentato Peter Kien, il più illustre sinologo vivente, dotato di un’intelligenza estrema e di una memoria prodigiosa. Kien vive sereno e recluso in compagnia dei suoi libri e dei suoi raffinati studi sulle antiche civiltà orientali. Fin da subito si comprende che l’intelligenza dello studioso è anormale non solo per la sua eccezionalità, ma anche perché completamente scollata dal mondo. Le sue abitudini potrebbero farlo apparire come un uomo privo di ragione, tutt’altro, Kien non ha altro se non la propria ragione. Ricusa i dati dell’esperienza, la concretezza stessa della vita, ritenuta sconcertante e odiosa, in favore di una coerenza logica non falsificabile e puramente astratta. La sua intelligenza è abbandonata a sé stessa e non entra mai in rapporto con il mondo. Kien è incapace di ammettere qualcos’altro nel suo universo di sillogi e concetti.

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Proprio seguendo e sviluppando uno dei suoi ragionamenti coerenti e adamantini, Kien si convince della necessità di sposare la sua governante, Therese, una donna meschina, gretta, ignorante e ossessionata dal denaro. Sebbene possano apparire come due tipi umani agli antipodi, sono accomunati dalla medesima incapacità di uscire da sé stessi per muovere incontro al prossimo. Kien e Therese misinterpretano continuamente le azioni e i pensieri dell’altro, prigionieri come sono dei loro schemi mentali, che non cessano mai di proiettare sul mondo per incasellarlo e ordinarlo, affinché si adatti alla loro idea del reale.
Questa impossibilità a comunicare rende il loro matrimonio una lotta costante. Lei tenta di renderlo un marito «perbene» di una «donna perbene» – come ama definirsi –, mentre lui le resiste nel tentativo, che si rivelerà vano, di preservare la sua monacale quotidianità di studioso. Therese, al culmine di uno scontro comicamente tragico, mette Kien alla porta.

La seconda parte del romanzo vede Kien girovagare per quel mondo da cui, per lunghi anni, si era consapevolmente ritirato, alle prese con individui non dissimili da sua moglie: totalmente presi da sé stessi e dalle loro fantasie, senza scrupoli, interessati solo al suo denaro – tutti lo credono ricchissimo per via dei soldi che sperpera, scambiando il suo disinteresse per munificenza. Ognuno di loro vive il suo sistema mentale delirante fino alle più estreme conseguenze, senza mai intessere un dialogo con l’altro. In nessuna circostanza, il sinologo prenderà contatto con la realtà, anzi, per venire a capo di situazioni pericolose e improbabili, la sua ragione fabbricherà idee e ipotesi sempre più complesse. Nella città, Kien, farà esperienze diretta della massa, l’orribile mostro irriflessivo attraversato e scosso da impulsi violenti e brutali, che terrorizzava lo stesso Canetti. Una massa feroce e ripugnante, che appare uscita dai pennelli di James Ensor.
Solo grazie al fortuito intervento di suo fratello Georges, unica figura positiva del romanzo, uomo tanto intelligente quanto concreto, Peter Kien vedrà ripristinato il suo ordinato universo librario. Lo studioso, però, ha ora «il mondo nella testa». Le esperienze vissute penetrano nel suo eremo, la ragione riprende a girare a vuoto nel tentativo di tenerle sotto controllo, conducendolo al più improbabile e irrazionale degli atti: un rogo che lo brucia insieme ai suoi adorati libri.

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Della vicenda di Kien si può fornire una sottile, forse sottilissima, interpretazione politica. Tutta la storia può essere vista come una metafora della disfatta della Repubblica di Weimar – che Canetti aveva conosciuto nel corso dei suoi soggiorni berlinesi – e più in generale del razionalismo politico occidentale.
La Repubblica era una struttura giuridica coerente e razionale, ispirata alla Normlogik di Hans Kelsen. La politica si vedeva limitata alla definizione di neutre procedure volte alla produzione di norme. Si preoccupava di legalità e di conformità alle regole. Un approccio che eliminava le domande relative ai criteri di giustizia, ai contenuti della legge e al «giusto ordine». La vita politica «concreta», carica di valori e conflitti, veniva ignorata in nome della «purezza» del diritto. Tale quadro razionalista – «scientifico» avrebbe detto Peter Kien – favorì l’ascesa del nazismo, ossia la folla grottesca e omicida. Quando il «mondo» entrò nella «testa», ossia nel parlamento weimariano, le procedure razionali e le norme giuridiche (come il sistema dei decreti d’emergenza) produssero l’incendio totalitario, esattamente come le ferrea razionalità di Kien lo conduce al rogo della biblioteca.

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La sottomissione alla tirannia nazista fu il prezzo che i «democratici» tedeschi pagarono per non aver voluto decidere sui valori, sulla giustizia, ritenuti concetti pre-razionali o «ascientifici».
Ecco la tragedia di Auto da fé: il naufragio di un intelletto non più adeguato alla realtà, dunque cieco. Die Blendung. Questo era il titolo originale: «l’accecamento». La ragione disancorata dalla vita, dal senso comune, si distrugge per eccesso di sé.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.