|  |  | 

ANNINA VALLARINO: “ALLE FEMMINISTE DI OGGI DICO CHE SCELGONO LE BATTAGLIE MENO RISCHIOSE” (intervista a cura di Lorenzo Zuppini)

Annina Vallarino è una voce fuori dal coro, capace di mettere in discussione i dogmi culturali del nostro tempo con lucidità e coraggio. Scrittrice e intellettuale, ha scelto di affrontare il femminismo contemporaneo senza reverenze né facili slogan, preferendo l’analisi razionale alle semplificazioni emotive. Nel suo saggio Il femminismo inutile e in questa intervista, Vallarino racconta il percorso chel’ha portata a prendere le distanze da un certo femminismo retorico, troppo spesso ridotto a industria del dolore o a performance identitaria, e a interrogarsi invece su quale possa essere oggi un femminismo davvero utile, concreto, capace di incidere sulla vita quotidiana delle donne.

Dalle esperienze personali vissute a Londra e Milano, fino alle riflessioni sui nuovi scenari tecnologici e sociali – dalla gestazione per altri al mercato del sesso online – emerge la sua volontà di restituire complessità a un dibattito che i social e i media tendono a polarizzare. Vallarino non si sottrae alle contraddizioni, anzi: le accoglie come strumenti di pensiero critico, invitando le nuove generazioni a dubitare, a ragionare con la propria testa, a non ridursi a performer della ribellione.

Questa intervista è quindi un viaggio nella sua visione, scomoda e al tempo stesso liberatoria, che ci obbliga a ripensare i nostri automatismi culturali, a riconoscere le nuove forme di potere e a guardare oltre le etichette.

CONTRIBUISCI ANCHE TU A SUPPORTARE IL NOSTRO GIORNALE Caro amico lettore, come potrai immaginare, dietro questo blog ci sono diverse persone che collaborano agli articoli che tu quotidianamente leggi. Se desideri supportare la nostra attività, ti saremmo grati se volessi dare il tuo sostegno all’Iban IT53E3608105138290082390113. L’intestatario è Matteo Fais. Grazie di cuore, La Redazione.

Nel tuo libro parli di un femminismo che rischia di diventare retorico o sterile: qual è stato l’episodio della tua vita in cui ti sei accorta, per la prima volta, che certe battaglie femministe non ti rappresentavano più?

Non è stata una conversione improvvisa, ma piuttosto l’accumulo lento di piccole irritazioni o dubbi. Considera che io non sono mai stata una femminista tout court, ma più che altro ho sempre professato una grande libertà, e una certa allergia alle etichette e al ruolo tradizionale della donna. Direi però che a Londra, dove ho vissuto per dieci anni, che si è creata una vera crepa. Lavoravo nel mondo editoriale, leggevo il Guardian. Ero immersa nel femminismo postmoderno. Ricordo l’esplosione di Everyday Sexism, un sito web che doveva costituire la prova dell’oppressione delle donne britanniche. Il progetto – raccogliere testimonianze anonime di aggressioni quotidiane subite dalle donne – operava una democratizzazione stramba: accanto alla battuta scema o innocua trovavi lo stupro. Già allora mi sono detta: c’è qualcosa che non quadra. Era la nascita del “believe women”, un tribunale permanente che aveva abolito le sfumature e che decretava un perenne “poverine noi”.

Poi è arrivato il MeToo e ha semplicemente istituzionalizzato quello che già accadeva, amplificato dai social media che non si limitano a democratizzare il discorso ma democratizzano anche le patologie del discorso pubblico. Mi pare che a un certo punto abbiamo deciso di gettare al vento l’uso della ragione e l’idea di autorità, di libero arbitrio, in nome di una giustizia generica e vendicativa. Da quel momento ho guardato a tutto ciò con crescente disagio, incapace di condividere l’euforia generale. Insomma, una cosa è riconoscere la violenza maschile, un’altra scovare nel quotidiano solo forme di oppressione, nutrire una vera industria del dolore, pur appartenendo alle generazioni di donne più libere mai esistite. Come se la libertà conquistata fosse diventata paradossalmente un fardello, e fosse più rassicurante delegare la propria agency a un patriarcato onnipresente: più comodo attribuire ogni difficoltà al sistema piuttosto che confrontarsi con la complessità delle proprie scelte.

Christina Hoff Sommers aveva già posto la domanda giusta negli anni Novanta: “Who Stole Feminism?” La risposta è semplice: l’abbiamo consegnato alle persone sbagliate, e temo che continueremo a pagarne il prezzo.

Il caso recente della ventitreenne che piange davanti al suo telefono per una battuta durante una TAC come grande atto femminista illustra perfettamente il problema: non è che tu voglia parlare di una situazione di disagio, ma che semmai ti senti autorizzata a parlare di traumi per una battuta infelice, pensando che quello che sia un grande atto rivoluzionario, e il tutto mentre piangi. Ma insomma, dov’è la grinta? Dov’è la dignità? Sia chiaro: non ce l’ho con le ragazze che credono che quello sia femminismo, a ventitré anni bisogna essere sceme – ce l’ho con noi, le più grandi, che le alimentiamo in questa retorica.

E poi abbiamo assistito al meccanismo che ormai si è consolidato. Due fazioni si sono formate immediatamente: i santificatori e i demonizzatori. Nessuno interessato alla verità, tutti interessati al posizionamento. Contro le donne o a favore delle donne? Non esistono altri punti di vista. Questo, però, è il mondo dei social.

Il secondo gruppo – gli scettici – avrebbe proceduto con maggiore cautela solo qualche anno fa. Ora no. Ora hanno voce, rabbia e soprattutto il senso di una legittimità riconquistata. Anni di dogmi spacciati per verità rivelate, di ‘believe women’ e dichiarazioni patetiche hanno prodotto uno scetticismo che è scivolato nella contro violenza. Non è giustificabile ma era prevedibile.

L’ultimo saggio di Annina Vallarino è acquistabile a questo link: https://shorturl.at/lCl9N

Esiste secondo te un femminismo utile? Se sì, in chi o in cosa lo identifichi?

Non so se sono qualificata per rispondere a questa domanda, ma ci proverò comunque. Quando vivevo a Milano facevo volontariato in una scuola di italiano per madri immigrate, prevalentemente arabofone. Le organizzatrici erano donne animate da genuina buona volontà, con un progetto concreto e necessario: mentre insegnanti come me si occupavano della lingua, delle educatrici intrattenevano i bambini. Niente retorica, niente performance – solo pratica. Ecco cos’è il femminismo che per me conta.

Mi rifaccio a Natalia Ginzburg: m’interessa il femminismo per le cose pratiche, “non come atteggiamento dello spirito”. E questo è per me il punto. Il femminismo come consolazione, come rivalsa, non m’interessa poiché è sterile. O peggio: diventa un patriarcato travestito. L’ultimo rimasto. Quello che persuade le donne che la loro forza sta nella messa in scena della fragilità, nella strategia della vulnerabilità, nel trovare ogni giorno un colpevole. Quello che le spinge a consumare le giornate nell’odio rituale verso i maschi, salvo poi continuare a scegliere quelli sbagliati, a educare dei mammoni e a perpetuare i meccanismi che dicono di combattere.

Eppure, se usato per ciò che dovrebbe essere – strumento di analisi, di azione – il femminismo, come punto di vista femminile, resta indispensabile. Pensiamo soltanto al tema della gestazione per altri, del mercato del sesso online o della violenza maschile. È giusto che ci siano dibattiti e riflessioni al riguardo. Oltre a questa attualità, però, vorrei un femminismo che sapesse guardare alle statistiche con onestà, senza rifugiarsi nelle mezze verità, che sapesse affrontare la violenza maschile anche in maniera scientifica, non retorica. Un femminismo che non ignori la dimensione delle classi sociali. Che abbia il coraggio di analizzare le strutture che incidono concretamente sull’esistenza femminile – il lavoro, la maternità, la distribuzione del potere, le condizioni materiali.

Un femminismo che sia consapevole che un’innovazione tecnologica come la lavatrice ha trasformato la vita delle donne molto più radicalmente di decenni di slogan emancipatori.

Un femminismo capace di riconoscere che le donne oggi compiono delle scelte, e che non sempre quelle scelte coincidono con l’ideale femminista di certune; ma pur sempre di scelte si tratta. Insomma, non esiste una sola maniera di essere donna. L’altro giorno c’era un articolo sul Corriere in cui si proclamava il ritorno di un certo conservatorismo, perché la grande single gattara Taylor Swift si sposa. Ma, insomma, una donna che vuole avere un compagno accanto ora è una conservatrice? Ma che diavoleria sarebbe? Se la tua critica a una visione retrograda del sesso femminile finisce per rifiutare anche le donne libere che decidono di fare scelte più tradizionali, come sposarsi e avere figli senza vederlo come una condanna ma come una gioia, significa che non t’interessa la libertà femminile, bensì ti interessa attuare una forma di controllo.

Un femminismo che diventa spettacolo è puro consumo di attenzione. Il coraggio, oggi, consiste nel rifiutare questo ricatto emotivo. Nel pensare autonomamente. Una delle cose più emancipatorie che dovremmo dire alle ragazze è: spegnete quei telefoni, usate il vostro cervello, rifiutate le gogna social, le invettive di queste novelle Savonarola che vi tengono inchiodate. L’influencer che vi vende creme anti-età non è molto diversa da quella che vi spaccia pensieri preconfezionati contro il patriarcato e che innalza la vita da single e il non avere figli come grande valore di libertà (non c’è niente di male nel desiderare un compagno stabile, non tutte siamo fatte per la poliamoria o la solitudine, santo cielo!).

L’ultimo romanzo di Annina Vallarino è acquistabile al seguente link: https://shorturl.at/jJkHH

Dominique Venner disse che “esistere è combattere quello che mi nega”. Per cosa combatti tu, adesso?

Di Venner, devo confessare, conosco poco e per questo ti rispondo di getto, senza collegarmi a lui. Non combatto. Non resisto. E ringrazio il cielo di aver conservato abbastanza onestà per ammetterlo.

Immagina che tra vent’anni una ragazza legga Il femminismo inutile: quale domanda vorresti che le nascesse spontaneamente, e quale invece ti farebbe paura che le cagionasse?

Vorrei che si chiedesse: “E se avessi ragione io?” Non per narcisismo ma perché quella domanda la costringerebbe a pensare con la sua testa, a mettere in discussione i consensi preconfezionati della sua epoca. Vorrei che dubitasse di tutto, non per spirito di contraddizione fine a sé stesso, o per cospirazionismo, ma perché il dubbio è l’unico antidoto al dogma. Insomma, l’esercizio di un dubbio di ragione.

L’episodio della “serva del patriarcato” e “apologia allo stupro”– così un’autrice mi ha etichettata per aver osato analizzare criticamente il paradigma di “cultura dello stupro” – conferma quello che sospettavo: abbiamo creato un ambiente intellettuale dove esaminare un fenomeno equivale automaticamente ad esserne complici. Vorrei che il mio saggio fosse giudicato come argomentazione e non come espressione di alcunché. Se una ragazza fra vent’anni mi leggesse e decidesse di confutarmi argomentando intelligentemente, sarebbe una vittoria. Se invece finisse nel solito repertorio – “serva del patriarcato”, “internalizzata misogyny”, “pick-me girl” – allora sarebbe solo una conferma di quello che temo e ho sempre temuto.

La domanda che mi terrorizza è: “Chi sono io per mettere in discussione quello che dicono tutte?” Purtroppo nel mondo culturale vedo un certo conformismo, che è dopotutto legato al dovere di performare nella maniera giusta. Abbiamo paura di perdere like, di essere visti come inattuali, vecchie decrepite. Dobbiamo dire le cose giuste, sempre. Abbiamo sostituito l’obbedienza patriarcale con l’obbedienza al pensiero giusto, il che è forse ancora più tragico perché almeno la prima non si spacciava per liberazione.

Abbiamo bisogno di ragazze che pensino, non che ripetano. Ribelli vere, non performer della ribellione.

Quando leggo scrittrici o intellettuali del Novecento, vedo una forza di spirito e di libertà che oggi sembra perduta.

È uscito il dodicesimo numero di “Il Detonatore Magazine”: https://www.calameo.com/read/00774819711c36dcf8adc

Se non avessi scritto Il femminismo inutile, quale altro tema urgente della nostra epoca avresti sentito il bisogno di affrontare con la altrettanta radicalità?

Il tema della riproduzione tecnologica, del nuovo mercato del sesso online e della tecnologia mi affascinano. Non mi colloco tra le posizioni proibizioniste: resto convinta sostenitrice della libertà personale. Al tempo stesso, non posso non notare come stia emergendo un brave new world in cui il corpo femminile rischia di essere ridotto a mero accessorio funzionale, contenitore intercambiabile, risorsa da ottimizzare.

Un mondo dominato da un linguaggio ossessivamente centrato sul desiderio individuale — “quello che voglio e che scelgo” — che raramente si interroga sulle conseguenze a livello sociale e comunitario. Non si tratta quindi soltanto di chiedersi se una donna possa vendere i propri ovuli, affittare l’utero, utilizzare sperma donato o monetizzare la sessualità online. La vera domanda è: in quale tipo di società queste pratiche si normalizzano? E soprattutto: cosa comporterà tutto questo nel lungo termine?

È uscita la seconda raccolta poetica di Matteo Fais, Preghiere per cellule impazzite (Connessioni Editore, collana “Scavi Urbani), ed è disponibile in formato cartaceo e ebook:
(cartaceo 12 euro)
(ebook 5 euro – gratuito per gli abbonati a Kindle Unlimited)

Un altro filone che mi affascina è quello della violenza femminile, oggi così poco indagato. Non credo sia casuale che Yasmina Reza, nel suo ultimo libro, presenti diversi casi di madri assassine. Su Netflix c’è ora un documentario inquietante su una madre affetta dalla sindrome di Münchausen per procura digitale: per due anni ha perseguitato la propria figlia con messaggi minatori. Intorno a me vedo ogni giorno madri adorabili, ma ne osservo anche altre che sono, diciamolo pure, dei mostri (pensiamo all’uso dei bambini nei social come content). Eppure di questo aspetto dell’universo femminile si parla pochissimo, come se riconoscere la capacità distruttiva delle donne minasse il nostro status di vittime.

Personalmente sono sempre stato toccato dalla condizione della donna nel mondo arabo-musulmano. Eppure vedo che le femministe si schierano in favore di quei gruppi di persone che certo non tutelano i loro diritti, con ancor maggior enfasi, oggi, col conflitto con Israele in corso. Tu cosa ne pensi?

C’è oggi un gusto eccelso per scegliere le battaglie meno rischiose. Quelle che permettono di sentirsi giusti senza pagare alcun prezzo reale.

Terza uscita per la collana “Scavi Urbani”: Il cielo è uno straccio sporco nella stretta della materia, di Luca Parenti (prefazione di Matteo Fais). Disponibile in formato cartaceo ed ebook:
(cartaceo 10 euro)
(ebook 5 euro – gratuito per gli abbonati a Kindle Unlimited)

Il patriarcato esiste ancora in Italia o è stato sostituito da qualcosa di nuovo? E, in quest’ultimo caso, ritieni la novità migliore di ciò che la precedeva?

A livello legale, parlare di patriarcato in Italia oggi è ovviamente impossibile. La patria potestà è stata abolita con le riforme del diritto familiare del secolo scorso: davanti alla legge, la donna è eguale all’uomo. Non esiste più alcun fondamento giuridico per un dominio maschile strutturale.

A livello culturale le cose sono più complesse, ma bisogna evitare la retorica generalista che imperversa ora. Sappiamo che molte delle teorie odierne sul “patriarcato sistemico” si rifanno a Foucault ma, come illustro nel saggio, questa è una visione seducente quanto priva di vie d’uscita.

Certo, esiste un retaggio patriarcale, ma non è uniforme: è anche questione demografica, territoriale. Eppure sentiamo continuamente discorsi vaghi e uniformanti. Il patriarcato è ormai sulla bocca di tutti, producendo un effetto quasi grottesco quando cinquantenni middle class lo declamano tra la lezione di yoga posturale e il festival della letteratura come mantra universale: è colpa del patriarcato di qui, è colpa del patriarcato di là. Io tornerei al sano utilizzo di maschilismo e misoginia, termini più precisi.

La realtà, a parer mio, è che stiamo assistendo a una trasformazione radicale del maschilismo, che non ha più nulla a che fare con quello tradizionale dei padri autoritari. Oggi si manifesta nel contesto di libertà sessuale, perdita di regole sociali, individualismo estremo, e un mondo tecnologico che ridefinisce le relazioni: dai social alle app di dating, fino a OnlyFans.

ACQUISTA il nuovo romanzo di Matteo Fais, Le regole dell’estinzione, Castelvecchi.
AMAZON: https://www.amazon.it/regole-dellestinzione-Matteo-Fais/dp/8832828979/
IBS: https://www.ibs.it/regole-dell-estinzione-libro-matteo-fais/e/9788832828979

Non vuol dire che la nostra sia una società più giusta o più ingiusta: vuol dire che il vecchio ordine è semplicemente crollato. Al suo posto non c’è un nuovo codice, ma un vuoto: frammenti di valori, regole che non valgono per tutti, adulti che si rifiutano di esserlo. Il risultato è una specie di adolescenza prolungata: ragazzi incapaci di riconoscere un limite e adulti che non si prendono più la responsabilità di indicarlo. Il caso della pagina “Mia moglie” è emblematico: mentre alcuni gridano alla necessità di smantellare il patriarcato, quella pagina dimostra esattamente il contrario – il patriarcato non sta benissimo. Nel mondo tradizionale, la rispettabilità femminile era un cardine sociale. Se un padre avesse scoperto le foto della figlia messe online dal marito, non pochi sarebbero andati a “chiarire” la situazione. Oggi quella rete è dissolta. Prendiamo la pagina Phica: è il manifesto di una resa. Un branco di maschi che, per esorcizzare la propria irrilevanza, ricorre a pornografia e scherno verso le donne di potere.

Che dire poi della decrescita demografica? Ma quale patriarcato è uno che neanche riesce a riprodursi?

Continuare a parlare di patriarcato come se fossimo ferme cent’anni fa serve solo a nascondere la vera questione: decifrare il nuovo mondo e i suoi nuovi rapporti di potere.

Ogni epoca è quello che è. Non vorrei mai tornare a quando una donna aveva bisogno della firma del marito per aprire un conto, o viveva nel terrore di gravidanze non volute. Per carità. Possiamo criticare questa epoca post-rivoluzione sessuale senza nostalgie per un mondo che grazie a dio non c’è più.

BIOGRAFIE

Annina Vallarino è nata a Genova, ha compiuto i suoi studi in Italia e a Londra, dove ha lavorato per dieci anni come producer editoriale. Ha collaborato con giornali e magazine scrivendo di cultura e società. Ha una pagina social, maileggera, che non aggiorna quanto vorrebbe. Ora vive nel sud della Francia.

Lorenzo Zuppini è nato a Pistoia il 15 febbraio del 1992. Laureato in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Firenze, prosegue con un master in Giurista Internazionale di impresa all’Università di Padova. Dopo un breve passaggio professionale a Bologna, adesso lavora stabilmente a Milano nel settore della consulenza. Precedentemente collaboratore de Il Primato Nazionale e altre riviste che, però, ha nel corso del tempo abbandonato per cercare lidi più affini al suo temperamento. Liberale, liberista e libertario.

Articoli simili

Un commento

  1. Qual è l’obiettivo del femminismo moderno??

    1) La parità?
    Se una donna dice a un uomo “ammazza quanto sei figo”, o fischia quando passa, questo si sentirà lusingato, felice, emozionato. Nel caso opposto secondo il femminismo moderno dovrebbe partire una denuncia.

    2) Gli stessi diritti lavorativi?
    Quale mansione che ad oggi può svolgere un’uomo è vietata ad una donna? Esistono lavori proibiti per le donne? Abbiamo letteralmente un primo ministro donna, e il capo dell’opposizione è donna, il mio capo è donna, il capo del mio capo è donna.

    3) Le quote rosa?
    Le quote rosa interessano quando si parla dei top management, ma non ho mai sentito parlare di quote rosa ai cantieri, al porto, o al meccanico, quindi anche qui, parliamo di uno specchietto per le allodole.

    4) Protezione per le donne da parte degli abusi commessi dagli uomini?
    Quindi stiamo dicendo che non sono in grado di proteggersi/decidere da sole? Ma questo non era il presupposto fondante del patriarcato?

    5) Emancipazione?
    Cosa una donna non può fare al nostro giorno? Può letteralmente prostituirsi su internet, mostrare il suo corpo a tutto il mondo e guadagnarci, surrogare la sua maternità per soldi, studiare in qualunque università o corso, fare il militare, il presidente, l’imperatrice, l’astronauta, ho finito non so più cos’altro.

    Il problema fondamentale del femminismo moderno è che non ha senso di esistere in quanto tale e quindi ha perso di ogni credibilità, si sta reinventando in una forma misandrica per stuzzicare gli uomini che l’hanno capito benissimo, non a caso in America sta andando molto forte il movimento “Men Going Their Own Way” (MGTOW) in cui gli uomini semplicemente decidono di ignorare le donne o le relazioni in quanto ormai non convenienti sotto nessun aspetto per l’uomo, letteralmente si trovano video di donne che si lamentano perché non sono mai state approcciate da un uomo, dove gli uomini rispondono che non lo fanno per paura di essere denunciati o considerati “creepy”, oppure “l’avete chiesto voi col Me Too”.

    Il femminismo moderno mi ricorda la sinistra moderna, quando è caduto il muro di Berlino il comunismo è fallito in modo chiaro ed inequivocabile ed hanno “reinventato” la sinistra, tutta basata su diritti, immigrazione, LGBTQ e altre cose che con la classe operaia c’entravano poco o nulla.

    Il femminismo a differenza del comunismo invece è finito non perché è fallito ma perchè ha raggiunto i suoi veri (e sacrosanti) obiettivi: uguaglianza, emancipazione femminile, parità dei diritti, etc. Una volta terminata la sua missione si è dovuto reinventare in una forma misandrica e piagnona in cui un patriarcato immaginario ancora opprime le donne.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *