LA RECENSIONE – L’AMORE, L’AULICO E L’OSSESSIONE IN “VODKA SIBERIANA” DI VERONICA TOMASSINI (di Paride Candelaresi)
Ho chiamato Veronica una mattina di metà gennaio. Mi ha risposto in maniera cortese, apparentemente timida. Mi è parsa cordiale, ma schiva. Mi ha inviato il suo romanzo, Vodka siberiana, auto-pubblicato. Di norma non li leggo – gli auto-pubblicati, intendo –, ma ho fatto un’eccezione. Veronica Tomassini è una donna originale: siciliana, enigmatica, risoluta e selvatica come solo alcune donne del Sud sanno essere. A pagina 62 del suo libro, dice «Novembre in Sicilia ha la levità della primavera che procede verso l’autunno». Come non rimanere ammaliati da così tanta poesia. E ancora «è una gran fortuna nascere nella giustizia». Sono molte le frasi laconiche di questo genere, brevi calcoli poetici. Lettere epiche e alticce quelle di Veronica, missive che lei scrive a sé stessa.
La Tomassini è una drammatica e prodigiosa scrittrice molto apprezzata – ha all’attivo i romanzi Il polacco Maciej, Christiane deve morire, L’altro addio, Mazzarrona. C’è chi l’ha definita rivoluzionaria, controcorrente, tragica, viscerale. Cerco di non farmi influenzare troppo dalla fama che la precede e comincio a leggere il libro. D’altra parte le recensioni iperboliche che ho letto delle sue opere non mi hanno ancora convinto ma lei, ammaliante come una strega, mi folgora con lo sguardo obliquo che attraversa la sua pagina Instagram. Ci sono una serie di foto del suo viso senza filtri, dettagli del suo volto, alternati a immagini del suo corpo minuto, bellissimo, senza testa. Mi chiedo, chi è Veronica? Impossibile nel suo caso disgiungere l’opera letteraria dal suo creatore.
Comincio a leggere le prime pagine. «La solitudine è la fossa più spaventosa dove guardare, e devi guardare, e devi farlo, in cui distinguere la degradazione delle pedisseque e ignobili circostanze di sventura». Caspita, penso questa ha piombo da sparare. Dunque, vado avanti. La scrittura di Veronica è infettiva, usa la seconda persona, è depositaria arcaica di sapienza letteraria.
I cambi di prospettiva sono caramelle amare da digerire. C’è il suo alter ego, una giovane donna che racconta della sua tormentata esistenza. Lo fa grazie al mezzo più nobile, l’amore. Il suo è oscuro, puro, difettoso, altissimo. È rivolto al siberiano, uno zingaro dai denti d’oro, slanciato e virile nel suo magro fascio di muscoli. Ha il viso bello ed eroico, quadrato e con gli zigomi scolpiti. È sessualmente attraente perché coriaceo, esotico, sempre sbronzo. «Zapoj la chiamano i russi. La sbronza per settimane, un vagabondaggio di visioni alticce traboccanti di deliri, la rivendicazione di un proletariato afflitto da una giustizia inesatta e da infinite inanità».
Scrive bene Veronica, penso. E ci sono molti riferimenti alla letteratura russa che farebbero tremare l’inutile esistenza di molte zuccherose colleghe scrittrici. Emmanuel Carrère si manifesta più volte in vorticosi costrutti di parole che distinguono la prosa di Vodka siberiana. Va a braccetto con Hlasko e Dostoevskij. Veronica vola alto e il suo elogio della solitudine è groppo in gola per il lettore.
Forte è l’influenza del personaggio di Limonov, teppista in Ucraina e idolo dell’underground sovietico, proprio come quegli indigeni che abitano il parco descritto nel romanzo: derelitti, stranieri, dissidenti. Eccitanti nel loro imbarazzante odore e portatori di disordine. Sono uomini smarriti, selvaggi che fanno tremare in tutta la loro esuberante primordiale sensualità. Mi fermo a riflettere su quello sciame di parole, poi vado avanti nella lettura.
Il testosteronico siberiano della Tomassini diventa soglia verso un nuovo mondo che l’avvia alla morte per non tradire la sua fede. C’è un martedì di novembre che cambia per sempre l’esistenza della giovane donna, innocente e borghese prima, lurida e immorale dopo. La donna a cui scrive la Tomassini è vittima di un incantesimo malato, diventa bersaglio di un intervento magico, fragile peccatrice nella sua imponente e delicata bellezza.
Ma torniamo a quel giorno «forse era martedì. Ed era novembre. Hai preso la lampada azzurra e l’hai infilata in una sacca. (…) Novembre è un mese tetro. In Sicilia, la primavera non finisce mai, si chiama inverno». Gli struggenti e balenanti capoversi del finale illuminano le pagine di quell’aura che ha avuto santa Cecilia, la giovane nobile romana che nel III secolo si avviò alla morte pur di non tradire la sua fede. Se per lei la morte è ingresso in una dimora preziosa e ornata (San Paolo), la protagonista del libro di Veronica Tomassini si abbandona a una coerenza definitiva, assoluta e radicale verso l’Amore. «La consolazione? La consolazione è grazia. Attraversi le spire del fuoco, la solitudine ti ha piegato le ginocchia».
Ho letto questo libro in una settimana. Le pagine, fitte di aulici ed epigrammatici versi, obbligano il lettore a prendersi delle pause. Oppure lo inchiodano alla sedia. Mi ha disturbato quella scrittura implacabile, lapidaria, soffocante – non lo nascondo. La sua prosa solenne si piega alla descrizione di provocanti balordi, imbarazzanti prostitute, inquietudini e incertezze perché la Tomassini pensa come una donna e una madre, ma scrive come un uomo. È scultorea, plastica e imponente, fragile, esile, effimera, fugace. Ci sono gli oleandri, le magnolie e i fiori selvatici. E poi c’è l’Amore in tutta la sua bruciante potenza distruttrice.
Le lettere di Veronica non si trovano in libreria e neanche online. Se volete leggere il suo libro dovete andarvelo a cercare perché i tesori, si sa, non sarebbero tali se facilmente raggiungibili. Potete tapparle la bocca, ma lei non smetterà di gridare. Non è da tutti essere per pochi.
Avevo pensato di intervistare questa scrittrice ribelle della letteratura contemporanea. Poi, a fine lettura, ho deciso che lei avrei fatto solo una domanda, una sola, apparentemente semplice: che cos’è l’amore per Veronica Tomassini?
“L’amore è l’assedio, l’ombra che Qualcuno ci ha lasciato addosso, perché nell’assenza, la Luce per deduzione, ne rivendicassimo la sola appartenenza. L’amore è lo spazio vuoto, la sedia tolta. È una vita in pezzi“.
Paride Candelaresi
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Paride Candelaresi, 35 anni, ciociaro fuori e sabaudo dentro. Scrive per diverse testate locali e va dritto al punto. Propaga fervori sulla sua pagina Instagram dedicata ai libri. È consigliere comunale e Presidente della Commissione Cultura del Comune di Asti. Sostiene “Do fastidio, ma ho il cuore tenero”.
Eccellente recensione per un libro pregevole: chi ha letto il romanzo lo rivive. Sembra quasi non si possa sfuggire alla magia della Vodka Siberiana; l’attrazione è tanta. Saranno, mica, lo sguardo gitano dell’autrice o la sua arcana calamita ad inchiodarci alle sue pagine scritte?