LE AVVENTURE POLIAMOROSE DI ELISABETTA SPANU, IN “LA TERZA NOTTE CON IL GATTO” (di Marco Landi)
Ve lo dico subito: preferisco una zoccola etica a una stronza epica – per chi non lo sapesse, la prima figura è quella delineata da Dossie Easton e Janet W. Hardy, nell’omonimo testo che fa da sfondo filosofico al romanzo (“Insomma, una vera zoccola, ma sicuramente non etica. Ecco perché! Non mi sarei potuta definire poliamorosa sino a quando non avessi scelto di vivere tutti i rapporti in maniera consapevole con il consenso di ognuna delle persone coinvolte e sino a quando non avessi posto l’accento su trasparenza, eticità accettazione al rispetto di chi ci è vicino”).

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Ho letteralmente bevuto La terza notte con il gatto (Arkadia) di Elisabetta Spanu, in poche ore. Libro ansiogeno e allo stesso tempo da terapia d’urto, fatto di parole finalmente libere di una donna libera, dominata soltanto in parte da residui di sensi di colpa inculcati a nostra insaputa dalla atavica cultura cristianocentrica. Fosse nata duemila anni fa, avrebbe frequentato i gladiatori del Colosseo senza alcun senso di colpa (“Ma quanto eravamo confusi! Juan aveva le sue storie, ne ero certa, ma non riuscivo a esserne gelosa, schiacciata com’ero dai sensi di colpa”).

La trama va così: Flavia, la protagonista, è obbligata a rientrare in Sardegna, per motivi di lavoro, dopo tanti anni vissuti in Spagna con la sua famiglia. Gli eventi che la vedono protagonista la inducono a riflettere in prima persona su temi esistenziali come l’amore, il poliamore, la morte, la monogamia, il sesso e su alcuni più prettamente femminili come la menopausa e la maternità. Per ogni evento o riflessione che sorge, comica o tragica che sia, la protagonista ha sempre bisogno di confrontarsi con le donne della sua linea matrilineare: mamma, nonna e soprattutto figlia (Lena, per la madre Sciolli), ognuna delle quali ha sempre avuto un ruolo ben preciso nella sua esistenza di donna storicamente irrequieta e in perenne contraddizione (“Dovevo ricordare di chi fossi figlia, nipote e mamma, e camminare a ritroso in linea matrilineare, per chiedere permesso. Un imprimatur solidale dalle donne della mia vita prima di autorizzare a pubblicare qualsiasi mio scritto. Dovevo ricordare in che modo diverso fossero venute al mondo, il colore, la lunghezza delle loro gonne, le parole di sesso che forse avevano sentito e quelle che forse non avevano mai sentito”).

Flavia racconta cosa comporta il continuo inevitabile scorrere del tempo per una generazione di donne formatasi negli anni ’70: la vita in continuo transito, i dubbi su come affrontarla (“Più che confusa ero in pieno transito. Non riuscivo più a raggiungermi con tanti movimenti […] Mi sembrava di stare bene sempre e solo nel momento in cui mi muovevo per raggiungere quell’altrove, che era assente nel preciso momento in cui cercavo di raggiungerlo”).
Brava. Bravissima. Comincia con una morte virtuale e chiude con una morte reale. Ma è proprio il mescolare le fantasie amorose da megabyte a quelle vissute da Flavia a dare forza narrativa al tutto: leggerezza, meraviglia, esperimenti confessati e inconfessabili paure, confusione e analisi lucide.

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Gli uomini, noi uomini, siamo sempre un contorno. Contorno necessario, ma non indispensabile. Ci piacerebbe essere attori protagonisti, sempre maschi alfa, sempre pronti a spararla più grossa appena fuori dalle lenzuola. Certo, in qualche modo ci siamo, pronti perfino a essere emotivamente utili in molti casi e, in altri, soltanto totem silenti (“‘Nonna cosa ne pensi di uno o più mariti?’. ‘Uno vale l’altro hija! Alla tua età scordati passioni ed emozioni e inizia guardare la tv tenuta per mano con un marito”; “Già sentivo il crocicchio dei maschietti sussurrare se la dava o non la dava. Se la dava era troia, se non la dava era stronza. Nulla di nuovo all’orizzonte”).

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Insomma, in questo libro, la vera forza sono le donne, da Canela a Clara, Nina, passando per la giovane e surrealista Sciolli, arrivando, infine, alla pragmatica nonna (“Raccontami un’altra volta di quel giorno che pedalavi in bicicletta sul ponte Golden Gate di San Francisco e ti sei improvvisamente sentita gli occhi pieni di sabbia. Ardevano quando hai capito che la graziosa coppietta che pedalava in tandem davanti a te aveva lanciato le ceneri di un’urna cineraria sopravvento. Quasi quasi andavi a sbattere su un bel cavo di acciaio, ma l’unica cosa che ti è venuta in mente era che potevi vedere il mondo con gli occhi di un morto sconosciuto. Ho bisogno dei tuoi assurdi e speranzosi aneddoti di vita, figlia mia”).

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Insomma mamme, figlie, amiche, amanti dalla stabilità tutta da verificare, donne sempre in transito e sempre alla ricerca dell’amore declinato in tutte le sue sfaccettature – il sesso su tutte. Ma non sesso fine a se stesso: proprio inteso, invece, come appagamento, gioia, gioco, allegria della coscienza. Sesso come ricompensa di una vita materiale fatta di complicazioni, cinismo, egoismo. Godere deve far parte della vita. E quella raccontata da Flavia è fatta di paure rimosse, golosità sessuali che si mescolano a dolcissimi ricordi d’amore: Juan, lo psicologo che compare nel testo, non ha capito un cazzo. Io l’avrei mandato nei campi a cercare mariposas (farfalle), dopo appena la prima seduta (“Lo psicologo si chiamava Juan, come mio marito. Potevo quindi fare confusione tranquillamente, una vita piena di Juan e il processo di transfer assicurato al quadrato. Soltanto per questo motivo gli avevo perdonato l’orrenda metafora della farfalla con le ali spezzate”).
Ultimi appunti: primo, l’autrice ha fatto bene a sottolineare il carattere barroso (caparbio) di Flavia, forgiato tra la terra emersa di Sardegna e il mare che la circonda. I sardi si portano appresso questa insularità non solo nel fisico, ma anche nella mente e l’autrice ha compiuto un atto dovuto perciò a chiarirlo, fin dal principio, forse per mettere in evidenza un aspetto importante, la determinazione.

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Secondo: piccolo eccesso di citazioni colte che fanno un po’ troppo Anni Settanta – mancava solo Marcuse – che, forse, ai vecchi compagni che ora tifano per Giorgia (Meloni, of course) suppongo diano un po’ fastidio.
Insomma, questo libro è una discussione tra donne in camera caritatis, ma potrebbe servire anche a noi uomini per illuminarci un universo che non riusciamo a vedere o che facciamo finta di non capire.
Marco Landi
Biografia
Marco Landi, 76 anni, sociologo, giornalista per oltre 40 anni, è stato redattore de La Nuova Sardegna di Sassari e de La Nazione di Firenze prima di concludere la carriera da capo redattore de L’Unione Sarda.