DELIRIO IN SALA OPERATORIA – SE IL BISTURI RECIDE ANCHE IL RISPETTO (di Michele Arena)
È accaduto tutto in una sala operatoria. Un luogo dove si salva la vita e dove, talvolta, la si perde. Dove ogni parola pesa quanto una decisione clinica, e ogni gesto ha conseguenze — anche se non sempre immediatamente visibili. È lì che, secondo quanto riportato dalla stampa, un professore universitario di altissimo profilo, il Professor Giuseppe Sica, avrebbe aggredito verbalmente e fisicamente una giovane dottoressa specializzanda, Marzia Franceschilli. Le immagini, registrate da un cellulare (di per sé inammissibile in quell’ambiente), hanno fatto il giro della rete, innescando reazioni polarizzate.
Il paziente, al centro del campo operatorio, secondo quanto si apprende, è morto dieci giorni dopo. La Procura ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti. Ma chiunque lavori in ospedale sa che il cuore di questa storia non sta solo nel decesso. Sta nel prima. Nelle dinamiche taciute. Nelle umiliazioni ritenute “normali”. Nell’abuso di potere che si mimetizza sotto il camice.

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Sorprende — o forse no — che molti colleghi siano corsi in difesa del professore. “È normale”, “Capita a tutti”, “Così si diventa forti”. Eppure, a ben guardare, in nessun altro contesto lavorativo si accetterebbe che una figura senior perda il controllo, urli, spintoni, minacci. Nemmeno se lo facesse in nome dell’eccellenza.
Sia chiaro: le sale operatorie sono luoghi ad altissima intensità emotiva. Le decisioni si prendono in pochi secondi, gli errori non sono concessi, e lo stress — quello vero, profondo, viscerale — è il compagno quotidiano di ogni intervento. Nessuno lo nega. Ma proprio per questo motivo, proprio in questi ambienti estremi, la capacità di mantenere lucidità, equilibrio e rispetto reciproco dovrebbe essere considerata parte integrante della competenza.
Secondo quanto riportano le fonti giornalistiche, il professore avrebbe negato di aver aggredito fisicamente la specializzanda. Una versione che però contrasta con quanto dichiarato dalla diretta interessata e da altri presenti in sala, sempre secondo quanto riferito dalla stampa. È evidente che sarà la magistratura a stabilire la verità dei fatti. Ma il problema, ancora una volta, non è solo quello. È ciò che questi fatti rivelano — o confermano.

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Che si tratti o meno di un’aggressione fisica documentabile, l’episodio ha portato alla luce un sistema che tollera e giustifica comportamenti che altrove sarebbero considerati inaccettabili. In nessun’altra professione sarebbe pensabile alzare la voce, perdere il controllo, aggredire verbalmente un collega subordinato davanti a testimoni — e uscirne senza nemmeno un richiamo formale.
E invece, il collegio dei professori si è espresso in favore del docente. L’Università non ha adottato provvedimenti. Un gesto che, al di là dei dettagli del singolo caso, segnala una realtà strutturale: esiste ancora, nell’università italiana, una forma di baronato che protegge sé stesso. Un potere accademico autoreferenziale, difficile da scalfire, in cui la solidarietà tra pari prevale sulla tutela dei più deboli. E dove il prestigio personale pesa più della responsabilità istituzionale. È un sistema che resiste a ogni tempesta, e che nel dubbio assolve sempre i suoi.

Gli ispettori della Regione Lazio sono in arrivo, ma l’impressione — già vista, già vissuta — è che anche stavolta tutto si sgonfierà in una nube di burocrazia e silenzi. E a pagare sarà solo lei: la giovane dottoressa che ha avuto l’ardire di dire “basta”.
La questione vera, dunque, non è individuale ma sistemica. Non si tratta di un caso isolato, ma di una cultura ancora diffusa in cui il rispetto tra colleghi non è garantito, ma concesso — se e quando conviene. In cui la gerarchia si impone attraverso la paura, non attraverso l’esempio. E in cui l’educazione, il dialogo, la fiducia vengono ancora visti come segni di debolezza.

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Nella mia esperienza personale — e parlo da medico — ho avuto la fortuna di lavorare con chirurghi straordinari, capaci non solo con le mani ma anche con la mente e con il cuore. Uomini e donne che hanno saputo affrontare situazioni critiche con fermezza e rispetto. Eppure ho incontrato anche l’opposto. Figure dominate dall’ego, dalla rabbia, dalla frustrazione. Persone che nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione perché “così va il mondo”.
Perché se in una sala operatoria è possibile aggredire una collega davanti a un paziente morente ,senza che nessuno alzi un dito, allora vuol dire che la medicina ha dimenticato una sua regola fondamentale: non c’è cura senza rispetto.
Michele Arena
L’AUTORE
MICHELE ARENA nato a Monza nel 1992, è medico otorinolaringoiatra, libero professionista in Italia. Rappresentante dei Medici Specializzandi dell’Università Milano-Bicocca dal 2019 al 2021, da sempre appassionato di politica e impegno civile, nel 2020 ha partecipato alla fondazione dell’associazione Medici Specializzandi Lombardi che si è battuta per i diritti dei colleghi in formazione. La dura esperienza della pandemia lo lega ad un gruppo di amici con i quali condivide esperienze, idee e interrogativi comuni. Il progetto di dare forma a questi pensieri incontra la penna di Matteo Fais. Da allora, collabora con “Il Detonatore” su temi di sanità e ambiente.
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Im primis andrebbero aboliti gli Ordini professionali dei medici e tanto altro andrebbe fatto.