Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

JERZY KOSINSKI, UNO TRA I PIÙ CONTROVERSI SCRITTORI AMERICANI (di Davide Cavaliere)

«La letteratura non è innocente e, colpevole, doveva infine ammettersi tale» (G. Bataille, La letteratura e il male).

Jerzy Kosinski è stato uno dei più brillanti, ancorché controversi, scrittori americani della seconda metà del XX secolo, a più riprese paragonato a Céline e Conrad, Kafka e Nabokov. Un autore capace di vendere settanta milioni di copie e di farsi eleggere, per ben due volte, presidente della sezione americana del PEN. Nel 1969, vinse il prestigioso National Book Award for Fiction con Passi, un libro freddo e crudele, carico di una sessualità esplicita e violenta, che precede di un anno l’ampiamente discusso Lamento di Portnoy di Philip Roth.

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Passi è scivolato silenziosamente nell’oscurità negli ultimi decenni, proprio come il suo autore. Nemmeno gli elogi letterari di David Foster Wallace sono stati in grado di contrastare la rapida svalutazione della reputazione letteraria e umana di Kosinski, rovinata da annose dispute sulla paternità del suo primo romanzo, L’uccello dipinto (si mormora che gran parte del libro sia stato confezionato da assistenti editoriali, tra cui Paul Auster, ma non vi sono prove certe in merito), domande sulla veridicità delle sue affermazioni autobiografiche (soprattutto per quanto riguarda dove abbia trascorso la Seconda guerra mondiale) e persino bizzarre voci secondo cui la CIA avrebbe contribuito a pubblicare le sue opere.

Questi pettegolezzi hanno oscurato uno scrittore di grande espressività, le cui evocazioni del male, per intensità e minuzia, ricordano l’inferno di Bosch o di altri pittori fiamminghi. Passi è un libro duro e cupo, che manifesta una rara e algida purezza, anche quando descrive scene di sadismo, bestialità e omicidio. La narrazione è costituita da una serie di brevi vignette sconnesse, Foster Wallace parlò di «tableaux allegorici», raccontati da un narratore emotivamente e psichicamente vuoto, testimone impassibile di crudeltà e atrocità, tranne quando vengono suscitati i suoi aggressivi desideri sessuali. Nel libro non s’incontrano nomi propri di persone o luoghi, offrendo una visione generale e hobbesiana della vita dell’uomo come «solitaria, povera, sudicia, brutale e breve».

Il libro sembra ripercorre alcune tappe della biografia del suo autore. Per metterlo in salvo dalla «Soluzione finale», suo padre, un professore, e sua madre, una pianista, entrambi ebrei, lo affidarono a una famiglia di contadini. Abbandonato dall’uomo a cui era stato preso in carico, il giovane Jerzy vagò da solo nell’Europa orientale. Aveva solo sei anni. Traumatizzato dall’esperienza vissuta, perse temporaneamente la capacità di parlare. Dopo la guerra, riunitosi alla sua famiglia, il giovane Kosinski studiò storia e scienze politiche in Polonia e in URSS. In seguito organizzò la sua fuga: falsificò sigilli e documenti ufficiali per ottenere un passaporto e creò una falsa «fondazione» americana disposta a sponsorizzarlo. Nel 1957 arrivò negli Stati Uniti con soli 2,80 dollari in tasca.

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Inizia, più o meno, nella Polonia comunista, abbandonata da Kosinski quando era uno studente universitario, e racconta senza sentimentalismo la tarda infanzia e la prima età adulta del narratore. Da bambino è angariato e picchiato da contadini sadici, che lo usano come bersaglio per i loro sputi; durante il servizio militare si rende responsabile di atti osceni e compie diversi omicidi; all’università viene pubblicamente umiliato dall’unione studentesca del «Partito» per la sua mancanza di partecipazione e «impegno».

Osserva senza battere ciglio un’estrema varietà di orrori. Vengono descritti alcuni atti di bestialità, come già nel suo memoriale romanzato, L’uccello dipinto, che compaiono come immagini arcaiche e terrorizzanti; reminiscenze, forse, di qualcosa osservato dall’autore, ancora bambino, al tempo del suo vagabondare per la campagna polacca.

Di norma, nei vari tableaux, gli esseri umani sono ridotti a nuda vita che può essere umiliata, danneggiata ed eliminata senza preoccupazioni. L’Olocausto, naturalmente, è una delle principali fonti di questa prospettiva. Ad esempio, il narratore conosce un architetto funzionalista che ha contribuito a progettare i campi di sterminio: «Ecco perché nei campi di concentramento progettati dal mio amico le vittime non restavano mai degli individui; diventavano uguali tra loro come topi. Esistevano solo per essere uccisi».

Invece di resistere alle forze che riducono gli esseri umani a strumenti o oggetti, il narratore spesso le interiorizza e le usa contro gli altri. In una delle sezioni più inquietanti del «romanzo», se così si può definire, la fidanzata del narratore viene stuprata da un gruppo mentre lui è trattenuto dai suoi aguzzini. Poco tempo dopo questo orribile evento, prende a trattarla sadicamente, come un oggetto, adottando, senza troppi problemi, la posizione dominante dei suoi aggressori.

Verso la fine, tutto sembra pronto a cambiare quando il misterioso narratore sale su un aereo per dirigersi verso una nuova vita negli Stati Uniti. Dopo il decollo del volo, egli pensa: «Sarei rimasto al mio posto con gli occhi chiusi, senza più forza né passione, lo spirito tranquillo come il piolo di un attaccapanni sotto un cappotto dimenticato, e sarei rimasto là, senza tempo, non misurato, non giudicato, senza seccare nessuno, sospeso in eterno tra il mio passato e il mio futuro».

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Questo stato ideale, però, non può essere mantenuto a lungo e, fin dal suo arrivo nella sua nuova dimora capitalista, si trova in balia di assurdi modelli di crudeltà. Incontra subito problemi di soldi e lavoro, così si immischia nella malavita, adottandone le pratiche di sfruttamento con la stessa facilità con cui aveva introiettato quelle del suo ex Paese.

A un certo punto, esprime il suo amore per la guida spericolata e lo sci, che sembrano riassumere la sua tendenza a seguire passivamente il corso degli eventi, generalmente mostruosi, verso cui il suo ambiente sociale lo spinge: «Dovevo proiettarmi oltre il mio corpo in un moto che non era ancora incominciato, ma che era imminente e irreversibile».

Poi, trova la possibilità di qualcosa di meglio nella vita dei poveri e degli emarginati razziali, che riesce a osservare in sicurezza nei loro bar e quartieri comportandosi come un sordomuto. Vorrebbe poter diventare uno di loro, credendo così di poter bandire «il sogno del possesso, di cose da possedere, usare e consumare, e i simboli della proprietà: credenziali, diplomi, atti. Questo cambiamento non mi darebbe altra scelta che quella di rimanere in vita».

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Viene spontaneo chiedersi quale sia il significato di un libro così perturbante e spietato. Una volta giunti al termine, non si può dare torto al già citato David Foster Wallace, che morì suicida come Kosinski, sul fatto che «solo Kafka si avvicina ai territori in cui si spinge Kosinski in questo libro». Si tratta dell’evocazione delle ossessioni sessuali e dei fantasmi dell’autore, oppure di una metafora dell’uomo schiacciato dalle forze impersonali della società? O, più semplicemente, di una provocazione letteraria pubblicata sulla scia della «liberazione sessuale»?

Difficile a dirsi, le sue opere, come la sua esistenza, sono costellate di punti interrogativi. Ma, forse, le risposte sono proprio lì, nello spaventoso intreccio di vita e sogno, paura e slancio, incubo e speranza, traumi e confessione.

Davide Cavaliere

L’AUTORE 

DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.

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