ROMANZI DA RISCOPRIRE – “LA VITA È UNO SCHIFO” DI LÉO MALET (di Matteo Fais)
“La vita era uno schifo, era un ignobile e spaventoso ingranaggio, e noi tutti contribuivamo a perpetuarne la merda. I soldati erano schifosi, e noi pure. Maiali sanguinari da una parte e dall‘altra” (Léo Malet, La vita è uno schifo, Fazi)
Diabolico e denso di neri effluvi, caratterizzato da un’ironia folle e malsana, grottesca, macabra, che si fa gioco della vita e della morte. La vie est dégueulasse (La vita è uno schifo), di Léo Malet, è un vecchio capolavoro del noir, uscito negli anni ’40 del secolo scorso, incredibile per il suo tempo e che potrà turbarvi ancora oggi.
Lo trovate incluso in un unico volume stampato da Fazi, La trilogia nera, insieme a Il sole non è per noi e Nodo alle budella. Grazie al cielo, a ogni modo, lo potete leggere autonomamente. Ma non trascurate anche gli altri due scritti, si tratta sempre di narrazioni esplosive che sanno di piombo e oscurità, di fanghiglia sotto le scarpe, inquietanti come fissare la Senna che scorre con quel suo liquido simile a sangue malato.
Il testo è la storia di Jean Fraiger, in principio un anarchico che ricorre al crimine e all’omicidio per supportare i minatori in lotta, per approdare abbastanza in fretta alla delinquenza al mero fine del sostentamento. Frattanto, la pulsione di morte prende forma in lui in un amour fou per una donna che risponde al nome di Gloria, bellissima e sfuggente, dai capelli rossi come un incendio, ma consorte tutto sommato fedele di un altro che ha la forza economica per garantirle un’esistenza da bambina viziata.
Come in tutti i romanzi che si rispettino, a ogni modo, la grandezza non è determinata da una storia particolarmente originale, ma dalla dote narrativa del suo autore, dalla sua capacità di scavare nei personaggi fino a trovare il grumo oscuro di cellule che attendono di esplodere.
Superba, nelle prime pagine, la scena in cui Jean, con i suoi brothers in crime, discute, poco prima di svaligiare un porta valori e massacrare i suoi occupanti, di una bimba uccisa durante una manifestazione dei lavoratori: “Mi sarebbe piaciuto vedere la foto, sapere che era bella. Doveva essere bella, era necessario. Giaceva a gambe aperte su un mucchio di carbone, con il suo povero vestitino, il suo povero vestitino da povera macchiato di sangue, con i capelli biondi pieni di polvere nera e il ventre ancora vergine penetrato da un seme mortale, caldo e tagliente, lanciato da sudici figuri gonfi d‘alcol. Aveva dieci anni”. Lui, nel parlarne al suo sodale, noto dongiovanni, chiosa dicendo: “E pensa alla ragazzina, Marcel. Se quei porci non l‘avessero uccisa, chissà, fra sette anni magari te la saresti fatta. Che il piombo che porta in pancia possa riempire la tua di coraggio!”. Una situazione da fare invidia al Tarantino di Pulp Fiction che fa discutere i suoi sicari di panini del Mc e Burger King, mentre si recano a giustiziare una banda di traditori. La banalità del male spiegata cinquant’anni prima, in modo straordinariamente simile.
Come avrete ben capito, c’è tutto quel che serve a far saltare le cervella di uno di quei miserabili stronzi di sensitive reader, oggi tanto di moda, votati a ripulire i testi del passato da tutti i retaggi attualmente considerati troppo scorretti (“E pensavo che lei, in un‘atmosfera profumata, accarezzata da lenzuola di seta e di raso, stava godendo con un altro. Io stringevo il capezzale a pugni chiusi e a denti stretti, e nascondevo la testa nel cuscino sporco. Urlavo in silenzio contro tutte le donne che in quel momento erano prese in un vortice di piacere, e contro tutti i maschi che lo stavano dispensando. Un odio enorme ed estenuante che mi dava sollievo”).
Il volume è attraversato da un’oscura forza lirica che indulge senza remore sui sentimenti negativi e il malessere che certo pervade il protagonista a un livello patologico (“Fui invaso da un‘immensa tristezza, che accentuò ulteriormente il livido albeggiare che stava entrando furtivamente in camera. Non mi piaceva lo spuntar del giorno, perché da molto tempo non avevo che risvegli da condannato a morte. Non amavo neppure il crepuscolo, che annunciava le tenebre che mi paralizzavano di terrore nella mia solitudine”).
Incredibile come, a distanza di oltre settant’anni, questo libro risulti detonante, per il suo coraggio e la scorrettezza. Gli scrittori di oggi, fatta eccezione per Houellebecq – infatti, quest’ultimo ricorda molto Malet –, se la sognano (“Vorrei credere nell‘amore… Sembra puerile, ma è così… L‘amore è la vita stessa, ne è il centro di gravità. Solo che la vita è uno schifo, e allora l‘amore… Le donne rovinano tutto… Tutte vacche e puttane! […] Troppo puttane, e al tempo stesso non abbastanza […] Non si può sperare di azzeccarne una che vada bene… E quand‘anche si riuscisse a immaginarlo, sorgono un mucchio di difficoltà e tutto si squaglia… L‘assoluto non esiste… Sempre una perenne sensazione d‘insoddisfazione… La nostalgia di un altrove…»”).
Fantastico questo protagonista nichilista e distruttivo, degno di andare a braccetto con tutti i perturbanti personaggi dostoevskiani. Lui, che abbandona la lotta sociale da un momento all’altro in preda al disgusto (“Se erano così delicati dovevano solo continuare a lavorare, farsi bastonare, scopare mogli racchie quanto loro e fare piccoli minatori in attesa dell‘emancipazione per misericordia divina… e pensare alla rivoluzione, alla trasformazione in una società migliore e altre fesserie eternamente promesse e mai realizzate…”), per scegliere il sottosuolo come dimora privilegiata (“In questa merda di vita ne avevo viste troppe per non desiderare di far comprendere agli altri, tramite la violenza, che un giorno avrebbero dovuto pagare salata la loro felicità a tutti quelli che non l‘avevano conosciuta”) e che ha per ognuno un cattivo pensiero, un giudizio impietoso e sprezzante (“Da cosa si riconosce che una donna ci ama?». «Mio Dio! C‘è un atto assai inequivocabile». «Anche le puttane compiono quest‘atto. Eppure non amano i loro clienti». «Sono donne a pagamento». «E le altre? Le si porta al cinema, si regala loro un cappellino o un profumo. Si tratta sempre di prostituzione e di commercio»”).
Un romanzo questo La vita è uno schifo, insomma, che del noir ha solo la struttura, ma la cui vera tensione è esistenziale, con un soggetto principale che è un Antoine Roquentin meno prettamente filosofo, il quale la nausea la vive a un livello carnale prima che intellettuale, senza razionalizzare l’avvento della follia. Insomma, dovete procurarvelo a ogni costo e nasconderlo nella giacca come un ferro da usare per scatenare, al momento opportuno, l’inferno.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).