LO SCHIFO DEL COMUNISMO NELLE FAVOLE DI SLAVENKA DRAKULIĆ (di Davide Cavaliere)
La vita sotto il comunismo è stata raccontata attraverso diversi mezzi – romanzi, saggi, film, testimonianze –, ma la scrittrice croata Slavenka Drakulić ha adottato il più originale e desueto: la favola.
In La gatta di Varsavia, la storia e le conseguenze dell’esperimento socialista sono affidate ad animali «domestici, selvatici ed esotici», che non meno degli uomini s’interrogano sulle illusioni e le speranze tradite tanto dal comunismo quanto dalla democrazia perché, come ha scritto il dissidente polacco Adam Michnik, «quello che vi è di più terribile nel comunismo è ciò che viene dopo di esso».
Bohumil, un topolino di Praga, accompagnando un parente nella visita al museo del comunismo, riflette sulla penuria materiale e morale generata dal regime. «La penuria – spiega Bohumil – è quando i soldi ce li hai ma non c’è niente da comprare, gli articoli o non vengono prodotti o non arrivano nei negozi, perché l’economia pianificata funziona così». Ecco, allora, che gli individui si vedono costretti, oltre che a tirare la cinghia, a vivere di piccoli espedienti, di mercato nero, di traffici più o meno leciti, che rendonono cinici e gretti.
Il topolino, mostrando al suo parente la ricostruzione di una stanza per gli interrogatori, medita sugli effetti psicologici dell’oppressione totalitaria. In quella stanza, simbolo del potere assoluto del Partito, la polizia segreta del regime costringeva gli uomini «a tradire non solo gli altri, ma anche sé stessi». Solo una minoranza assaggiava la spietata concretezza degli apparati di repressione, ma tutti vivevano «con la sensazione di avere una stanza d’interrogatorio installata nel cervello. Non la vedevi, ma c’era».
La sorveglianza reciproca messa a punto in tutta l’URSS, alimentava e si nutriva di sospetti, paure e autocensura. «È un semplice ed efficiente meccanismo psicologico che trasforma le persone in bugiardi e, quindi, in complici del regime».
Una riflessione simile, ma ancora più amara, è affidata all’orso bulgaro Tosho, catturato ancora cucciolo dallo zingaro Angel e trasformato in un orso ballerino: «Era così che ci addestravano: arroventando una grande lastra di metallo, o limitandosi a spargere a terra carboni ardenti, per poi constringerci a salirci sopra e “ballare”. Noi orsi capivamo subito che era meglio risparmiarci almeno due zampe, e quindi ci alzavamo su quelle posteriori».
Liberato dopo la caduta del regime di Živkov da un gruppo di animalisti, Tosho, non appena sente della musica, che sia quella di una gadulka o quella rock, si mette a ballare: «Io ho una lastra di metallo rovente installata per sempre nel cervello. Sarà per questo, che non credo di poter capire e apprezzare davvero la mia ritrovata libertà». Il comunismo distrugge la persona morale. Decompone l’anima dei suoi sudditi, consegnandoli a un presente vuoto, privo di aspirazioni e valori. Come l’orso ballerino, l’uomo post-comunista è disorientato e incapace di vivere la propria ritrovata libertà.
Il racconto, invece, dell’involuzione «cesaropapista» dei regimi sovietici è demandata al cane romeno Charlie, chiamato a riflettere sul problema del randagismo causato dai coniugi Ceaușescu, che demolirono interi quartieri per edificare il faraonico palazzo presidenziale noto come «Casa del Popolo». I proprietari delle case abbattute furono trasferiti in grandi palazzoni grigi, presso i quali i cani erano vietati, così finirono tutti per le strade di Bucarest. Nicolae ed Elena evitarono di abbatterli per non turbare la comunità internazionale (Putin, per le Olimpiadi di Sochi, non si sarebbe posto questo problema), così gli animali finirono per moltiplicarsi.
Il destino dei cani di Bucarest, abbandonati e mendicanti per le strade della città, è un dramma parallelo a quello dei suoi bambini. Nel 1966, infatti, la dittatura di Ceaușescu abolì l’uso del preservativo e la pratica dell’aborto per incrementare la crescita demografica. Tale decisione produsse un’ondata di nascite indesiderate e migliaia di bambini abbandonati, costretti a vivere, come cani randagi, nelle fogne di una Bucarest infernale.
Il cane Charlie analizza il delirio di onnipotenza dei coniugi Ceaușescu, padroni assoluti della Romania, certamente carnefici ma anche vittime del culto della personalità a loro tributato, proprio come il Maresciallo Tito narrato dal pappagallo croato Koki, incapace persino di pensare alla propria morte.
La favola che dà il titolo al libro, «La gatta di Varsavia», attraverso la vicenda umana e politica del generale Jaruzelski, chiamato a ripristinare l’ordine sovietico nella Polonia sconvolta dagli scioperi di Solidarność, ragiona intorno alla libertà umana posta di fronte ai grandi processi storici e a un nemico dalla forza soverchiante. Secondo Havel, citato nel libro, il confine tra vittima e oppressore nel tardo comunismo attraversa ogni persona. Jaruzelski, sottolinea la sua gatta, ha scelto il «male minore», ma come ricorda Hannah Arendt, «chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male».
I soggetti della Drakulić non sono gli orrori centrali dell’Europa centrale – il terrore stalinista o l’arcipelago gulag – ma piuttosto le vite delle generazioni che sono cresciute sotto il comunismo, persone della sua stessa generazione (è nata nel 1949). Le storie narrate non sono veramente favole perché, alla fine, non ci sono morali o massime da apprendere. Esse, semplicemente, ci invitano al ricordo in un mondo che ha fretta di dimenticare – non di rado per riproporre più facilmente certi modelli.
La mentalità comunista, come insegnano gli otto animali del libro, si riverbera ancora nelle società post-sovietiche, ostacolando la piena democratizzazione (ovviamente facendo le dovute differenze nazionali). La gatta di Varsavia invita, seppur indirettamente, il lettore a sostenere le forze civili e liberali dell’Europa dell’est. Solo quando quest’ultime si saranno definitivamente imposte, il comunismo si potrà dire definitivamente sconfitto.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.