IL LIBRO DI BANINE, UN VANGELO PER EDONISTI REDENTI (di Matteo Fais)
Dove trovare la strada per la fede, se non nell’annichilimento che genera il peccato, nell’abisso che si apre dopo l’effimero e il turpe di ogni piacere?! Kierkegaard, Pascal, Agostino: tutte le migliori menti del pensiero religioso hanno capito che la via verso la luce è un pellegrinaggio sul sentiero infernale latristricato di disperazione e angoscia, nella notte più fosca.
Se non è l’approdo, ma il viaggio a costituire il vero piacere, niente è romantico come una dolorosa redenzione, come fare i conti con l’inafferrabilità di Dio e del Cristo – la gioia della salvezza finale non può che provenire da uno stillicidio. Ciò sapeva, con l’atroce sentire che dà uno spillo nella carne, Banine, al secolo – quello passato – Umm-El-Banine Assadoulaeff, giornalista, scrittrice, indossatrice, donna libera, amante mai fino in fondo corrisposta di Jünger e indomita peccatrice trapiantata a Parigi, “un deserto di erotismo, di tecnica e di crudeltà”.
Superbo e superlativo questo volume, Ho scelto l’oppio (MAGOG) – l’oppio dei popoli, la religione vista dal marxismo che lei, così abile nel disprezzare e fuggita dal bolscevismo, certo non apprezzava (“la religione è molto più forte di quanto pensino i comunisti, che la interpretano come strumento dei ricchi per opprimere i poveri”). Un diario intimo, le confessioni di una donna che santa non è nata, ma ha tentato l’ascesa con tutta la forza della sua povera carne.
Meditazioni all’ombra della nevrastenia le sue, con il baratro come solo orizzonte (“se avessi fallito ancora non avrei avuto altro da fare che immergermi nella follia o suicidarmi”), con l’amore terrestre ormai così irrimediabilmente mascherato (“Se solo potessi dare a me stessa una passione il cui oggetto non fosse l’uomo. Di un uomo avevo fatto un dio, e da questa idolatria aspettavo la felicità. Che inganno”) da non lasciare più spazio se non al salto nel vuoto della trascendenza, sperando di salvarsi (“Non sapevo ancora che quando si è presi dall’assoluto, bisogna cercarlo al di là delle creature: la migliore non è in grado di appagarci”).
Se Sant’Agostino fosse stato un uomo moderno, in una metropoli fremente, brulicante di decadenza, avrebbe scritto questo libro del tormento, una città di Dio nella cornice di un regno del degrado – chiunque può aspirare alla virtù in campagna, avrebbe detto Wilde, ma bisogna provarci in una città gaudente come Parigi, che declina ogni cosa in modo epicureo.
Potrete indistintamente leggerlo dall’inizio alla fine, seguendo la rimbaudiana rivelazione di una compagna d’inferno, oppure aprire il testo a caso, che la sua forza non muterà. Ogni pagina contiene almeno una vertigine, uno slancio abissale, una bestemmia di profondissima devozione (“Altra tendenza malsana: intenerirsi su se stessi. Dato che non odio più il mondo dalla mattina alla sera, come prima, mi trovo meravigliosa e ci manca poco che non pianga, commossa dalla mia virtù. Ma ho un bel prendermi in giro: la tenerezza verso me stessa rimane”).
Questo piccolo e intensissimo volume rinnova i millenari dilemmi (“Credere, amare, possedere un cuore semplice, respingere i ragionamenti perché in fin dei conti sono tutti idioti e mi allontanano dall’essenziale: la fede”), riporta l’oscenità di ogni torsione e avvitamento dell’anima (“Ma la chiamata di Dio si confondeva ancora per me con il bisogno di una mediocre felicità, una felicità umana”), tenta di dare una voce mortale alla spinta senza speranza verso l’immortalità (“L’atea che vive in me è oggi sfidata dalla credente, ma è anche vero l’inverso. Non sono né atea né credente, ma un mostro ibrido che non trova il definitivo compimento”).
Più di tutto, però, è una riflessione sull’amore dilaniato tra cielo e terra, virtù e perdizione, anima e corpo (“Ammiro la castità, ma la credo riservata a qualche eletto, il libertinaggio invece mi pare buono per nature grossolane, senza esigenze morali, che impoveriscono l’amore badando al piacere. Ma fra questi due estremi si pone l’amore elevato che, spinto ad altezze eccessive, evade anch’esso dal regno della carne in quanto presuppone il dono di sé. Come si fa a vedere il peccato anche in questo? Agli occhi dei credenti un tale amore non è peccato soltanto se è benedetto da un prete. Come può Dio, se esiste, maledire un tale superamento di se stessi per il fatto che esso avvenga fuori della Chiesa?”). Quasi un “appuntamento galante” con Dio, per dirlo con le parole della stessa autrice.
Non cercate, quindi, la limpidezza di un’anima che non ha più niente a che fare con la miseria (“Questa notte un sogno erotico, snervante, che non finiva mai. Era laido, ma godo all’idea di averlo fatto: è la prova che l’istinto sessuale non è morto, ma tenuto soltanto al guinzaglio dalla mia volontà”). La donna che scrive trabocca di empatia per il mondo che ha da poco abbandonato, la sua Chiesa non è un’umanità senza peccato (“Se essa fosse soltanto santa, come oserei entrarci?”). Solo, l’universo in cui vive ha rivelato il suo inganno, l’assenza di Dio per una falsa salvezza (“L’immagine di un’umanità felice, nutrita a forza di vitamine, che si fa la doccia, che va in villeggiatura e ascolta persino della musica e legge libri in abbondanza, mi dà la nausea. Una terra con l’ultracomfort e la sicurezza garantita; con una profilassi materiale che non lascerebbe sopravvivere neanche un microbo pericoloso, con una profilassi psichica che ucciderebbe l’idea di Dio in germe”). Quella vita che ha vissuto è stata un atto di dolore e un viaggio dantesco che dovrete arrischiarvi a percorrere.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.