L’EDITORIALE – L’ESAME DI MATURITÀ NON SERVE A UNA MAZZA (di Matteo Fais)
“Non venite fuori con la grossa artiglieria della retorica progressista: le ragioni della civiltà, la educazione dello spirto, l’avanzamento del sapere… Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non è venuta fuori dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non sono nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano”. (Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole, Stampa Alternativa, Viterbo 1992)
Io le scuole le chiuderei. Servono solo a dilapidare soldi pubblici. Se un popolo non analfabeta è quello che poi cammina in una strada deserta con la mascherina posizionata fin sopra il naso, meglio gettare la spugna e, quantomeno, abbassare le tasse a chi va a lavorare. Se il risultato di cinque anni di studio è la fede cieca nella scienza – dimostrando così di non avere la benché minima nozione della storia stessa di questa materia –, personalmente, preferisco fare come Eraclito e, provocatoriamente, andare a giocare a dadi con i ragazzini.
Che farsa l’esame di maturità! Come tutti gli esami del resto… E le interrogazioni. Non che non siano difficili, che non ci sia da imparare, ricordare e mandare a memoria. Il problema è che non serve a un cazzo, almeno per apprendere l’arte di ragionare.
Anche io, in passato, ero fermamente convinto che la scuola e l’università fossero fondamentali per formare la persona, civilizzarla, fornirle gli strumenti intellettuali. Ne sono ancora persuaso, solo, nel mentre, ho capito una cosa fondamentale che prima mi sfuggiva: si può tranquillamente prendere 100 alla maturità, 110 e lode alla laurea, senza aver mai usato il cervello per in dubbio la realtà intorno a sé. In buona sostanza, come dicevano in quel film, La scuola – se non ricordo male –, l’istituzione scolastica serve solo a coloro che non ne avrebbero bisogno.
Ciò di cui, infatti, si sente la mancanza nel nostro Paese è proprio di gente che pensi, dubiti in modo metodico, non dica mai di sì a prescindere, che prenda sempre con le pinze e verifichi ogni informazione diffusa. Purtroppo, non avviene quasi mai. Se non succede è perché noi, fin dalla più tenera età, tra quei disgraziati e sudici banchi, veniamo indottrinati a rispettare e ripetere pedissequamente la voce del padrone.
Pensateci. Voi andate a scuola e il professore di Lettere vi dice che Pirandello era un grande autore, vi parla della sua poetica, delle tematiche affrontate nella produzione romanzesca e teatrale. Poi, voi vi presentate all’interrogazione e ripetete. Sovente, non avete neppure mai letto un pagina dell’autore in questione. Semplicemente, obbedite, vi fidate, prendete per buono. Qualcosa di molto simile avviene con Dante. Lui per voi è “il Poeta” per antonomasia. Ma, se non ci fosse stato il Risorgimento, non ne avreste sentito parlare con altrettanta enfasi. Fateci caso: se vi chiedessero, adesso, a bruciapelo, di motivare il perché della sua grandezza, la ragione per cui lui è considerato il sommo, cosa direste? Probabilmente, vi limitereste a fare scena muta, malgrado il fiorentino, nella vostra testa, sia registrato come il non plus ultra. Ma questo è catechismo – e pure fatto male –, non Storia della Letteratura Italiana.
Il sapere vero è costante messa in discussione delle conoscenze di cui ci si ritiene detentori. Socrate non scriveva, secondo un certa interpretazione, proprio perché riteneva che fosse contrario al naturale evolversi del pensiero la cristallizzazione su carta e Platone dette vita a tanti dialoghi presumibilmente per rendere il venirsi a costruire, a livello dialettico, delle nozioni. Non per niente, già lui aveva ben compreso che aver letto molti libri non è garanzia di superiorità: “Tu offri ai discenti l’apparenza, non la verità della sapienza; perché quand’essi, mercé tua, avranno letto tante cose senza nessun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur essendo fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza (Fedro, 275e).
Se volessimo realmente verificare la maturità dei nostri ragazzi, pur senza passare da vecchiacci rompicoglioni, basterebbero due domande: a) Dimmi il titolo dell’ultima serie televisiva che hai visto; b) Adesso, analizzala dal punto di vista narrativo e cinematografico. Insomma, un modo come un altro per vedere se sono in grado di mettere a frutto le competenze apprese in 5 anni di studio. Sono pronto a scommettere che l’80 percento di loro capitolerebbe miseramente. Più che il titolo di studio, dovrebbero consegnare loro il certificato di morte.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.