L’EDITORIALE – I VERI RESPONSABILI DELLA MORTE DI SEID VISIN (di Matteo Fais)
Immaginate di svegliarvi domani in una città completamente diversa dalla vostra. Improvvisamente, metà delle persone parla con un altro accento, usa altre espressioni dialettali e mangia un altro cibo. Certo, ciò si noterebbe maggiormente in una realtà medio-piccola e tendenzialmente isolata, ma quanto detto potrebbe valere per la maggior parte dei centri urbani o dei paesi presenti sullo Stivale.
Come vi sentireste? Io dico quantomeno spaesati. Ciò succederebbe anche, che so, se uno si recasse a Roma e trovasse un numero spropositato di persone che parlano milanese. A Roma, ti aspetti di trovare i romani, il loro simpatico modo di fare caciara, la loro pasta alla gricia, o cacio e pepe, e così via.
Tendenzialmente, ogni volta che il mondo intorno a noi va incontro a un repentino e colossale cambiamento, diventiamo guardinghi e chiusi. È normale, è un naturale meccanismo psicologico di protezione dell’identità. Naturalmente, ciò non succede con un individuo di passaggio, o se, in un paesello, giunge uno di fuori. Solitamente, lo si accoglie, la gente fa a gara a offrigli da bere, a portargli qualche piatto tipico cucinato dalla moglie. Anche ciò è assolutamente nell’ordine delle cose: quel che è esotico attira l’attenzione, solletica la curiosità. Certo, se in un paese di mille anime arrivassero improvvisamente 150 persone che, pur condividendo la stessa nazionalità, avessero un accento e un aspetto differente, i paesani non la prenderebbero bene, starebbero sul chi va là.
Qualcosa di affine si evince nelle parole di Seid Visin, l’ex calciatore, figlio adottivo di italiani, di cui uno stato Facebook è stato preso a mo’ di testamento morale, dopo il suo suicidio: “Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità”.
Quanto descritto – e riconosciuto – dal ragazzo è ovvio e assolutamente in linea con la situazione da me tratteggiata sopra. È chiaro che se immetti una grande quantità di persone allogene, in una realtà per di più frammentata e poliedrica come quella italiana, il risultato è il rifiuto e la chiusura estrema. Capiterebbe con chiunque. Se improvvisamente tutti i palazzi intorno a casa mia fossero abitati da giapponesi, io comincerei a sviluppare delle riserve nei loro confronti, mentre se ne incontrassi uno oggi sarei felice di chiacchierarci anche per ore – chiaramente in inglese –, sentirlo parlare della sua cultura, della vita condotta fino a quel momento. Ma resta fermo che non vorrei vedere trasformata la mia terra in un piccolo Giappone, né gradirei che vi fosse un’enclave, tipo un quartiere, in mano loro.
Tutti coloro che hanno sponsorizzato e favorito il flusso migratorio riconosciuto dallo stesso Visin sono responsabili del clima che si è venuto a creare e che il ragazzo suicida denunciava. Solo che quello non è razzismo, questo bisogna capirlo. È naturale diffidenza, presente in ogni comunità, se una massiccia quantità di persone estranee vi entra di punto in bianco a farne parte.
Il razzismo è questione ben diversa. È una teoria, la quale presuppone la sussistenza di razze, l’inferiorità di una o più di queste, e la necessità da parte di quella che si suppone superiore di sterminare o soggiogare le altre. Ma se io sono refrattario all’idea di trovarmi la mia terra abitata in pianta stabile, per metà, da giapponesi, non sono una razzista, ma semplicemente un uomo con un senso della comunità e dell’identità. Si viaggia, infatti – ammesso che nel mondo globale abbia ancora senso –, proprio per vedere realtà, usi e costumi differenti, identità inassimilabili alla nostra.
In un’Italia non antropologicamente sfigurata dalla follia progressista che vorrebbe mascherare l’importazione di nuovi schiavi dietro una questione umanitaria, Seid Visin non sarebbe mai arrivato a sentirsi tanto estraneo da commettere quel triste gesto estremo.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Da straniero non posso che codividere in toto il suo pensiero