Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

LETIZIA DIMARTINO – IL VIAGGIO – SECONDA PUNTATA (RUBRICA A TEMA LIBERO DI UNA SCRITTRICE)

INVITO ALLA LETTURA

di Matteo Fais

Continua, per “Il Detonatore”, il viaggio nella memoria della scrittrice Letizia Dimartino. Un’Italia scomparsa dalle mappe ritorna nella malinconia, alla quale si accompagna la più atroce delle consapevolezze: “Eravamo felici e non lo sapevamo”. La vita è sempre prima, ma lo si capisce solo dopo. Lo scrittore lo sa e con la parola tenta una corsa a ritroso per riprendersi ciò che fu, lo ricostruisce con la parola nella speranza di riviverlo. Ogni scrittura è, in fondo, un atto disperato.

I TESTI DI LETIZIA DIMARTINO

Gli anni sessanta erano belli anche racchiusi in un gelato da 30 lire. In un frigorifero Atlantic. Nei dischi da regalare ai compleanni, nelle scatole degli cioccolatini, nella caramella Cinzia, nei primi Baci Perugina. Le rotonde sul mare, le candele ai tavoli di ristorante, le donne dalle gambe scoperte sulle piste da ballo, le passeggiate sotto i tigli, i libri di scuola legati con la cinghia, certi calzettoni molli sulle caviglie. E gonne che si affacciavano corte, a sovvertire tutto. Una guerra appena finita, che la notte, prima di prendere sonno, scompigliava i pensieri sereni. Sarebbe tornata? I genitori ci calmavano. Loro che l’avevano conosciuta bene. Ma sorridevamo insieme alle nuove cineprese, agli obbiettivi delle macchine fotografiche giapponesi. Dietro, a fondale, una Italia che sorgeva veloce. In questa domenica per me dolorosa torna tutto, l’aria dell’estate, i giornali comprati dopo la messa e il pranzo in cucine “americane”. Cosa ancora accadrà dopo aver letto le prime pagine dei quotidiani, cosa stiamo lasciando? E mi rigiro fra queste lenzuola, il sole sui monti celesti, il dolore fisso. Il tempo. Tutto il mio tempo.

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Le estati degli anni sessanta furono le più belle. Eravamo felici e non lo sapevamo. Anche con le prime maniche corte, con i fiori sul balcone e il nido delle rondini nella grondaia. Col grido dei ragazzi in piazzetta, la capanna e i libri comprati l’ultimo giorno di scuola, coi viaggi lungo il Tirreno e l’Adriatico dai paesi come vuoti, la campagna solitaria al mattino e la festa del Patrono con palloncini e zingari nelle strade e il silenzio della processione, il manto rosso e la statua scura di legno. Amavo il cappellino da marinaio del mio primo fidanzato, la rotonda sul mare e Gino Paoli coperto dagli occhiali neri ed  Endrigo a Sanremo. La TV coi teleromanzi e la radio con Dina Luce e Costanzo dalle voci bellissime. Proust letto in veranda, mentre passava un treno piano sul costone, la casa con le vetrate aperte e la vallata ancora brulla. I baci, poi, i primi baci.

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Quando il traghetto attraccava in Calabria credevo di aver fatto già un lungo percorso. E in ogni caso pensavo che solo lì iniziasse l’Italia. C’erano cartacce sotto un ponte con i binari, sterpi brulle, il sole sembrava più caldo, le case bianche di Messina lontane. Si stava fermi in ore impossibili, si sentiva odore di mare nero, di pece, di navi. Il treno ripartiva lento lento, avevo un pensiero di sofferenza dentro. Ma se eravamo in auto la strada si apriva altissima sui monti, e la punta estrema della mia isola ci lasciava piano per immergerci nei paesi con l’odore del rosmarino, con gli ulivi troppo contorti e diversi dai nostri, avevano un dolore nei loro rami protesi. Vendevano fragole di bosco, il freddo si sentiva man mano che ci allontanavamo dalla sabbia grigio ferro, dalle case disordinate, dalle stazioni immobili e solitarie, dal mare piatto e senza confine. Iniziava il viaggio e un’altra terra.

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