L’EDITORIALE – ANCHE AL SUD, LA FAMIGLIA È MORTA (di Matteo Fais)
Sfogliando il classico giornale da bar, il quotidiano regionale più famoso del posto, ho scoperto che nella mia città la metà delle famiglie è unipersonale. Per farla semplice: si tratta di single che vivono da soli. Che sfiga!, ho pensato.
Persino qui, in questa terra perduta in mezzo ai flutti del mare, oramai, siamo ridotti come gli americani o quei cazzo di debosciati del Nord Europa, soli. Uomini senza donne e donne senza uomini – non so gli omosessuali e i trans, ma non mi sembra il caso di complicare la discussione.
A ogni modo, la cosa non mi stupisce. La solitudine è penetrata in noi come la sola dimensione esistenziale possibile, con la morte della socialità. Solitamente, più una città si apre e aumenta di dimensioni, più le persone si chiudono, diventano guardinghe e indifferenti. Lì dove prima, in un qualsiasi quartiere o rione, tutti si conoscevano, si salutavano e si fermavano a chiacchierare, oggi a stento ci si guarda negli occhi di sfuggita.
Mi ha molto colpito l’altro giorno, seduto a una pizzeria all’aperto, in pieno centro, vedere tutti questi piccoli gruppi di ragazze che, in grande spolvero, facevano vasche avanti e indietro per la via. Non cagavano nessuno. Sembravano chiuse nel cerchio impenetrabile del branco, oppure fissavano un punto situato in un indistinto orizzonte e camminavano come sfilando, incuranti di qualsiasi cosa. Ho subito pensato che un simile atteggiamento di chiusura ci porterà alla rovina. Questo ostentare una inavvicinabilità divina ha come contraccolpo di indurre l’arrendevolezza più totale nei soggetti maschili. È un po’ come per il lavoro – in amore e nel sesso è sempre un po’ come in ambito economico: se al cinquantesimo curriculum o colloquio ti hanno solo sbattuto la porta in faccia, ti rassegni alla dimensione di disoccupato.
Il risultato di questo uscire per non incontrarsi è sotto gli occhi di tutti, persino di quelli del giornale locale. Un destino da atomizzati, chiusi in un monolocale, bighellonando mentalmente tra lo smartphone e il MacBook, aspettando il rider con il cibo da consegnare e la flebo di emozioni quotidiane seduti davanti a Netflix.
Vorrei poter dire che questo è il Male, ma non è così. Non viviamo in una Sodoma e Gomorra. Non c’è quel grandioso libertinismo senza freni, quella voglia di dissiparsi e sprofondare nella carne, di rovesciare il limite divino per la dionisiaca dannazione. No, questa è stanchezza, astenia, inerzia da moribondi. L’Occidente finisce senza tragedia e clangore, sintonizzandosi su una paytv, sognando una vita su Tinder, aspettando il nuovo episodio sul sito porno come si aspetta una persona cara.
Metà delle famiglie sono questo, una persona sola, un silenzio. Il nostro cadavere lo troveranno dopo giorni, saremo un olezzo fetente che dà fastidio nel palazzo. Possiamo salvarci? No, il processo è irreversibile e, del resto, quasi nessuno lo nota. L’AssessorA della mia città si è limitata a parlare dei grandi cambiamenti a cui sta andando incontro la famiglia tradizionale. Ve l’ho detto, non c’è tragedia né dolore, solo un lento spegnersi.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
“Così finisce il mondo, non con uno schianto, bensì con un lamento“
T. S. Eliot (1925)