COSTRETTI A DARE RAGIONE A EMANUELE TREVI SUL LINGUAGGIO INCLUSIVO (di Matteo Fais)
È noto che lo scrittore Emanuele Trevi non è l’uomo più simpatico al mondo – tra l’altro, il suo look da vecchio zio grunge risulta ridicolo quanto quello da finto montanaro di Mauro Corona. Sovente le sue argomentazioni suonano vagamente raffazzonate, poco impattanti, simili a parole in libertà.
Malgrado ciò, nel dibattito con Vera Gheno, la linguista che tanto si spende per il “linguaggio ampio” – come lo chiama lei, preferendo tale formula a quella di “linguaggio inclusivo” –, risultava impossibile non dargli ragione. La tenzone si è svolta durante il programma di RAI 3, Dilemmi, condotto da Gianrico Carofiglio (https://www.raiplay.it/video/2024/05/Dilemmi—Il-dilemma-della-desinenza—Puntata-del-19052024-660fec68-a1e0-4420-ad13-666a8036b359.html).
Il motivo per cui non si poteva che sottoscrivere il discorso del noto Premio Strega sta nel fatto che questo si è limitato a esprimere una posizione, per così dire, di buonsenso comune. La disputa sulla lingua inclusiva, ampia o ampiamente inclusiva, ha rotto i coglioni, è una stronzata, una perdita di tempo che lascia il mondo esattamente come l’ha trovato – lo stipendio della commessa resterà invariato, come quello del commesso –, limitandosi a infastidire chiunque abbia una vita reale da portare avanti.
Diciamocelo chiaro e tondo: il problema se dire, presentandosi a una serata tra amici, “Buonasera, cari amici” o “Buonasera a tutte le persone presenti”, in modo tale da non far sentire esclusi o discriminati coloro i quali non si identificano nella distinzione binaria tra uomini e donne, o in quanto femmine si percepiscono escluse dal maschile sovraesteso, non è solo una questione bizantina di lana caprina ma qualcosa che rasenta il manicomiale. In soldoni, più una faccenda da portare all’attenzione degli psichiatri che dei linguisti.
Trevi ha, tra le altre cose, fondati motivi quando fa notare come il linguaggio conciliante della Gheno, che suona alla stregua di “ma che volete che sia, si tratta di una piccola accortezza”, è, in ultimo, fuorviante e subdolo. Non sono quelle come lei di solito a causare i problemi più gravi, ma tutti i seguaci inferociti che fanno propria la battaglia. È uno schema vecchio come il mondo, abbracciato di solito con una certa malafede dai capi popolo: il lavoro sporco lo si lascia sempre ai sottoposti per poi, nel caso, prendere le distanze pubblicamente dai loro eccessi.
Lo potete vedere quotidianamente praticato sui social. Chi vi deve attaccare scrive “X sostiene questa tesi che, francamente, mi trova in totale disaccordo. Neppure mi spreco a rispondergli”. Ecco dunque arrivare la fanteria dei follower pronti a dire peste e corna contro la persona citata, senza che colui che ha acceso la miccia intervenga mai per rimettere al loro posto gli animi più accesi, salvo forse in caso di minacce di morte.
È noto che, in società, mentre le punte di diamante parlano con toni ragionevoli, i facinorosi determinano il reale corso delle cose con atteggiamenti intolleranti e radicali. Quindi eccoli che lanciano la gogna social verso chi dissente, che attraverso oscuri personaggi messi nei gangli del potere riescono a far licenziare, o quantomeno a fare mobbing, contro chi è in disaccordo con le loro istanze. In sintesi le teste pensanti danno inizio a tutto, ma è il braccio armato a imporre a calci in culo certe idee presso la collettività, spesso proprio a mezzo di un sistema di terrore giacobino declinato in chiave democratica, quindi molto più graduale e meno manifesto.
Come di consueto, in principio, la battaglia viene spacciata come libertà d’opinione, solo per poi togliere meglio il diritto al libero pensiero agli altri. Piano piano certi termini vengono proibiti o stigmatizzati. Si procede lentamente, uno per volta, fino a ritrovarsi con un vocabolario totalmente alterato. Alla fine si dirà che loro non centravano niente, perché la lingua viene mutata dai parlanti e non per decreto. Tutto vero, si omette però di dire che questi si sono adeguati per paura, non semplicemente perché persuasi da una sana dialettica intersoggettiva. Trevi dice giusto quando sostiene che, tra qualche anno, anche “nonno” e “nonna” diventeranno discriminatori.
Ma se è inutile tutto il discorso sul linguaggio inclusivo, ancora più inefficace è stare qui a smontarne civilmente le argomentazioni. Con gente simile, con terroristi della parola, non serve andarci tanto per il sottile. Loro contano sull’acquiescenza tipica delle masse che, invece di reagire sonoramente e, se il caso, violentemente, a certe folli imposizioni, piegheranno il capo. Questo è bene ricordarlo: niente si impone, se il popolo si ribella. Tutte le persone ancora sane di mente, che non si sono bevute i bei discorsi della propaganda, dovrebbero passare all’azione. Se non lo faranno – cosa molto probabile –, il risultato è già ampiamente prevedibile.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)