ANSELM KIEFER – CONTRO IL LUOGO COMUNE DELL’ARTE CONTEMPORANEA “BRUTTA” (di Davide Cavaliere)
Un luogo comune vuole che tutta l’arte contemporanea sia «brutta» e «incomprensibile», niente più che una clownerie per ricchi annoiati. Premettendo che il «Bello» è un assillo recente nella storia dell’arte, canonizzato e non necessario, esistono artisti che lavorano sul nostro presente e sulle sfide della civiltà al fine, come direbbe Achille Bonito Oliva, di massaggiare «il muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva». Si chiamano Joan Fontcuberta, Eduardo Kac, Orlan, André Butzer e David Hockney.
Tra i più rilevanti artisti contemporanei vi è sicuramente Anselm Kiefer, di recente tornato all’attenzione del pubblico, soprattutto di quello italiano, per via della mostra fiorentina intitolata «Angeli caduti» e per l’uscita nelle sale cinematografiche del film-documentario Anselm diretto dal celebre Wim Wenders.
Nato nel 1945, da decenni non smette d’interrogarsi e interrogare l’Europa sugli orrori e le rimozioni del Novecento. In quest’epoca che ha bandito il tragico, inteso come irreparabilità del male inflitto, Kiefer è forse l’ultimo artista che nella sua opera lo mantiene vivo. Se, a volte, rischia di cadere nel decorativo, le sue creazioni, per temi e dimensioni, ammutoliscono e turbano lo spettatore.
«Anselm» ripercorre la storia di Kiefer e ne svela il pensiero. Coloro che conoscono poco il suo lavoro vi troveranno abbastanza materiale per comprendere la sua importanza nel mondo dell’arte e oltre. Per tutti coloro che hanno dimestichezza con la sua produzione, invece, rappresenta una miniera di suggestioni.
I primi venti minuti del film consistono in un seguito di scene che scorrono attraverso i numerosi tunnel e sale del suo atelier-tenuta nel sud della Francia, a Barjac. Un mondo dentro al mondo, composto da rastrelliere mobili su cui sono collocati enormi dipinti di oceani e montagne, steppe e spiagge, attraversati da burroni e squarci di piombo; riproduzioni a grandezza naturale di missili e aerei da guerra; grandi vetrine con all’interno del grano dorato e quella che sembra essere la torre di raffreddamento di una centrale nucleare. Detriti e container ovunque.
Il documentario sottolinea come la violenza delle macerie e dei cumuli di metalli sia l’esperienza fondamentale di Kiefer. Il suo corrispettivo letterario è lo scrittore W.G. Sebald, nato anch’egli in una Germania disintegrata dai bombardamenti, che non diversamente dal pittore-scultore ha riflettuto sulle omissioni collettive di quella immane devastazione.
Il primo successo di critica e pubblico, con relativo strascico di polemiche, l’artista l’ottiene nel 1969. In un periodo di euforia generalizzata, con l’intento di provocare l’identità del popolo tedesco, Kiefer si fa fotografare durante «azioni», denominate Besetzungen (Occupazioni), in varie località europee, mentre, con indosso l’uniforme da ufficiale della Wehrmacht del padre, emula mollemente il saluto nazista. Seguono una serie di opere, tra cui le Heroische Sinnbilder (Simboli eroici), dove esplora il rapporto tra la Deutschtum e la mitologia, che gli attirerà nuove accuse di «neonazismo».
Kiefer, così facendo, rivela come il nazismo abbia pervertito e infettato, fino a renderle sospette, l’alta cultura, la patria, il mito, l’eroismo, la poesia; così come riflette sulla tragedia, vissuta dal poeta ebreo sopravvissuto alla Shoah, Paul Celan, di dover continuare a scrivere in tedesco, sua muttersprache.
L’opera poetica di Celan, insieme a quella di Ingeborg Bachmann, è centrale nella riflessione dell’artista sugli abissi della Storia. All’autore della Todesfuge, che nella pellicola di Wenders possiamo udire letta dall’autore, Kiefer ha dedicato un’insieme di sculture, installazioni monumentali e ben diciannove tele di grande formato, dove i versi del poeta compaiono scritti col gessetto bianco tra tele nere, metalli arrugginiti, filo spinato, cemento, felci e papaveri. La poesia viene gettata e assorbita dalla materia. Lo spettatore legge la cenere, la paglia, il carbone e meglio comprende gli enigmatici versi di Celan.
Il documentario si sofferma anche sugli «angeli» di Kiefer, ovvero le incombenti riproduzioni di aerei da guerra, con le loro «ali maligne, le meridiane di morte», per citare Salvatore Quasimodo, poeta amato dall’artista.
Nel 1989, espose per la prima volta Der Engel der Geschichte (Mohn und Gedächtnis), ossia «L’Angelo della Storia (Papavero e Memoria)». Il riferimento è al testo di Walter Benjamin sull’Angelus Novus di Paul Klee, che il filosofo ebreo-tedesco identificò come «l’angelo della Storia», che vede accumularsi ai suoi piedi «rovine su rovine». Kiefer, con ironia, sembra suggerire che il suddetto angelo non si limiti a osservare inorridito le macerie accumulate dagli eventi, ma le produca proprio, come un aereo da guerra. L’11 Settembre 2001 era ancora lontano, ma già premonito.
L’Olocausto, evocato anche dai nomi di Celan e Benjamin, si staglia come sfondo dell’opera di Kiefer. Un sole nero che solo i suoi girasoli, altrettanto neri, possono osservare direttamente. Alcuni dipinti mostrano campi innevati e cieli di cenere, non diversi da quelli che deve aver visto Primo Levi nel suo viaggio di ritorno da Auschwitz o da milioni di prigionieri sovietici in marcia forzata verso la Kolyma.
La distruzione non appartiene solo al tempo umano, ma anche a quello geologico. Violenza e oblio sono le due parole che tengono insieme la Storia e la Natura, in una «storia naturale della distruzione». Come ha scritto Katja Petrowskaja, scrittrice affine alle tematiche «kieferiane», la natura sembra aver incluso «nel suo sistema circolatorio tutti i generi di violenza, i passi pesanti degli eserciti in marcia, i ricchi villaggi che morivano di fame, i crateri scavati dalle granate, le fosse e i morti insepolti, e là dove cerchiamo la pace, già da tempo aveva avuto luogo la nostra metamorfosi, a ogni respiro e a ogni morso della mela entriamo a farne parte, parte dell’avvelenamento e del peccato di cui non siamo responsabili».
Eppure, in questo paesaggio di sabbia e polvere, non tutto è condannato. A un certo punto del documentario, l’artista parla della «simultaneità» dell’essere e del nulla. Il nulla non necessariamente segue l’essere e viceversa. L’essere, la forma, il significato, fioriscono inaspettatamente. Come recita un verso di Celan: «È tempo che la pietra accetti di fiorire». Si tratta della «rosa del Nulla» evocata nella poesia intitolata Salmo. Lo stesso Kiefer ha più volte affermato che «le macerie sono come il fiore di una pianta; sono l’apice radioso di un incessante metabolismo, l’inizio di una rinascita».
L’artista ha una sensibilità unica per l’ebraismo. Ha letto Scholem e Rosenzweig. La sua fondazione si chiama Eschaton, una parola che si riferisce alla fine del mondo – in termini biblici l’atto finale di Dio nel tempo umano. È questo il significato recondito della sua opera Die berühmten Orden der Nacht, «I famosi ordini della notte», dove una grandine di stelle sembra adagiarsi sul suo stesso corpo illividito, disteso su un terreno secco e screpolato. Quegli astri sono un ordine, una chiamata alla vita: «Tutti coloro che cadono hanno le ali».
Tra tutte le stelle di Kiefer, instancabile cercatore di paradisi e scrutatore di costellazioni, la più luminosa rimane quella della Redenzione, necessaria affinché la Storia, cannibalica divinità, non ci consegni, come scrive la Bachmann, a «un sepolcro da cui non c’è resurrezione».
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.
Questo è un articolo formidabile e istruttivo. Chapeau. Grazie.