INVITO ALLA LETTURA DI WALT WHITMAN, IL PIÙ MODERNO DEI POETI (di Matteo Fais)
“Ti ho visto, Walt Whitman, senza figli, vecchio mangione solitario, a frugare fra le carni nel frigorifero e occhieggiare i garzoni del droghiere. Ti ho udito fare domande a ciascuno: Chi ha ucciso le cotolette di porco? Quanto costano le banane? Sei tu il mio Angelo?” Allen Ginsberg, Un supermarket in California, da Jukebox all’idrogeno, Mondadori.
La vera rivoluzione letteraria la fa lui, il poeta che smette di essere divino, distante, iperuranico e si fa uomo. Così scrive, infatti: “Walt Whtiman, un cosmo, il figlio di Manhattan,/ Turbolento, carnoso, sensuale, che mangia, che beve, e che procrea,/ Non un sentimentale, non uno al di sopra degli altri, uomini e donne, o in disparte da essi/ […] Chiunque umilia un altro umilia me”.
Sì, proprio lui, quello che canta il “corpo elettrico”, il maschio come la femmina. L’autore di Foglie d’erba è questo e molto altro, certamente è il più moderno e al passo coi tempi. Ancora oggi tanti ventenni europei sono convinti che fare poesia sia tirare in ballo un universo naturalistico ormai mestamente estinto, parlare di gabbiani, uccellini vari e spazi incontaminati, anche se poi vivono tra Facebook, smartphone, computer e suv, in città dove le ultime vestigia della natura sono i vasi dei fiori sui balconi. Whitman, che certamente, nell’800, ancora poteva godere di un contatto selvaggio e autentico con flora e fauna, mette in versi ben altri scenari “Sento l’America che canta, sento le diverse canzoni,/ quelle degli artigiani, ciascuno che canta la sua come dovrebbe essere, allegra e forte,/ il carpentiere che canta mentre misura la sua asse o il suo trave,/ il muratore che canta mentre si prepara per il lavoro o smonta…”.
Egli rompe con qualsiasi tentazione di essere nano sulle spalle dei giganti. Pur trovandosi a sua volta “Nel mezzo del cammin di nostra vita” (“Io, ora, trentasettenne in perfetta salute, ora incomincio/ E spero di non cessare che alla morte”), ha una prospettiva completamente diversa rispetto a quella dantesca. Mentre il nostro poeta si fa prendere per mano da Virgilio, nel suo viaggio – insomma, dalla tradizione –, lui procede in solitaria, dice “io” per dire sé stesso e, al contempo, l’America, a cui si arroga il dovere di dare una voce nuova, superando il passato: “Ho studiato attentamente i tempi antichi/ Mi sono seduto ai piedi dei grandi maestri,/ Che ora tornino, i grandi maestri, se questo è possibile, e studino me”. Nelle sue parole: “Io non oso andare oltre se prima non ho riconosciuto/ con tutto il rispetto, quanto avete lasciato quaggiù; L’ho esaminato attentamente, l’ho trovato ammirevole/ […] L’ho contemplato a lungo, intensamente, poi l’ho messo da parte;/ Io sto al mio posto con i miei giorni, qui”.
Una nuova poesia per il Nuovo Mondo, per un uomo contemporaneo che si è scrollato il passato dalle spalle e nutre una incontenibile fiducia nel futuro e nelle proprie potenzialità di creatura del domani (“Fermati con me oggi e questa notte, e ti impadronirai dell’origine di tutti i poemi/ […] Ascolterai da ogni e filtrerai da te stesso”). Il poeta americano ha ben compreso che la storia monumentale, quella entro cui vive il Vecchio Mondo, è mortale: se non si può fare più dei propri padri, nascere è inutile. Il nostro tempo è ora, senza l’ossessione per ciò che è stato. Un oceano – è proprio il caso di dirlo – ci divide e sgrava da ciò che fu (“Né vi sarà più perfezione di quanta ce n’è ora,/ Né più cielo o inferno di quanto ce n’è ora”).
Se Dante è il poeta del castigo, della gerarchia netta che divide cielo e terra, Whitman non crede nel peccato. Come distribuisce il suo Dio, panteisticamente, in ogni cosa (“Credo che una foglia non sia meno importante di tutto il percorso degli astri/ […] E un topolino è un miracolo bastante a far vacillare sestilioni di miscredenti”), egli non ritiene che la carne sia radice di tutti i mali, ma elemento sacro come l’anima (“Attraverso di me le voci proibite/ Voci di sessi e di lussurie, voci velate cui rimuovo il velo,/ Voci indecenti che schiariscono e trasfigurano/ […] Io credo nella carne e negli appetiti,/ La vista, il tatto, l’udito, sono miracoli, ogni mia parte e frammento è un miracolo”).
Il suo Foglie d’erba, testo universale come La Divina Commedia, su cui l’autore tornerà per una vita, come Petrarca sul Canzoniere, è il canto di un uomo immerso nel mondo (“Questa è la città e io sono un cittadino,/ Quanto interessa agli altri interessa anche me, politica,/ guerre, mercati, scuole, giornali…”), non di un poeta ripiegato su sé stesso. La sua poesia è per tutti, senza distinzione di ceto, e contempla chiunque (“Sono il pompiere schiacciato con lo sterno fracassato,/ I muri cadendo mi hanno sepolto nelle loro macerie,/ Ho respirato aria bruciante e fumo, udito i richiami dei compagni”).
Leggetelo, come affrontereste un viaggio verso quel mondo che ancora ci appare così distante e oscuro. Compratevi, se possibile, un’edizione con testo a fronte, perché inevitabilmente il tono meditativo dell’autore, una volta tradotto, suona vagamente parafrasato rispetto alla forza lirica del testo originale. La poesia americana, questo è bene tenerlo sempre a mente, non è fatta al fine di essere fruita nel silenzio di una camera, ma per essere condivisa. Ha sempre il tono di un discorso pubblico, da rivolgere a una platea. Pensate ai versi di Whitman dedicati ad Abraham Lincoln, “O Capitano! Mio capitano!”, che tutti conoscerete dal noto film L’attimo fuggente. Non si possono leggere con la mente, andrebbero urlati, esattamente come qualcosa gridava in lui quando li scrisse.
Naturalmente, qui è stato impossibile dire più dello stretto necessario. Il resto spetta a voi, ma rincuoratevi pensando che, come dice il poeta, “Questi, in realtà, sono pensieri d’ogni uomo in ogni epoca e luogo, non nascono con me,/ Se non sono vostri quanto miei non sono niente, o quasi niente,/ Se non sono l’enigma e la soluzione non sono niente,/ Se non vi sono vicini quanto distanti non sono niente”. Palesemente, siete al cospetto di uno scrittore che vuole arrivare a voi.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).