LA NAUSEA ESISTENZIALE, NELLA POESIA DI MATTEO FAIS, AL RITMO DEI JOY DIVISION (di Melania Acerbi)
“Le parole sono pallide ombre di nomi dimenticati. Come i nomi hanno potere, le parole hanno potere. Le parole possono accendere fuochi nelle menti degli uomini. Le parole possono far uscire lacrime dal più duro dei cuori” (Patrick Rothfuss, Il nome del vento, Fanucci Editore).
Come farsi un tuffo in un mare di scuro testosterone, in una mascolinità a tratti tossica, ma ferita: ecco a cosa equivale leggere L’alba è una stronza come te (Denta 3 Edizioni) di Matteo Fais. Fin da subito, si sprofonda in un’atmosfera bukowskiana, dove la realtà, cruda al punto da render vive le pagine, sa di strada, di sudore, di polvere.
Non mancano, a far da contorno, l’odore acre della sigaretta spenta e l’asciutto che il vino lascia in bocca. I versi di Fais sono proiettili che arrivano dritti allo stomaco, trapassandolo senza pietà.
La raccolta, da buttare giù in un unico sorso come si fa con un superalcolico con cui ci si vuole devastare, ha la struttura di un concept album e, mentre la si divora, si ha la sensazione di udire in sottofondo le tristi e bellissime note di Love will tear us apart dei Joy Division e quelle incalzanti di Isolation, in un intreccio sofisticato e ben riuscito.
Insieme all’elemento amoroso, infatti, ve n’è un altro che percorre tutta l’opera dall’inizio alla fine: il senso di estraneità che prova l’autore di fronte a ciò che sembra avere un significato, come a ciò che non lo possiede e, infine, di fronte alla realtà tutta, a prescindere dai significati e dai sensi.
Quello di Fais è un esistenzialismo maledetto, egli è un Caronte grunge che traghetta l’anima del lettore sulle sponde della sua infernale consapevolezza, che è la condanna terrena di chiunque abbia davvero amato, sofferto, vissuto. Recita, in tal senso, La puttana cinese: “Io ci ho provato a entrare a passo di danza/ a dire buongiorno allo spazzino/ e a presentare la ricetta al farmacista/ ma mi impappinavo e mi pesa pure/ chiedere le sigarette al tabaccaio/ perché la gioia di un uomo/ nascosto dietro a un bancone/ mi turba sempre un po’.” Egli è un esule, è lo straniero di People are strange dei Doors. E poco sopra: “Ma tu lo sapevi, per questo/ te ne sei andata”, dei versi, questi, che, nella loro schiettezza disarmante, rimangono incollati alla mente e alla gola, fino all’ultima pagina.
Non manca, poi, una splendida tenerezza, una commozione che fa dischiudere le labbra in un sorriso tremante di fronte all’abisso che separa due realtà destinate a non incontrarsi mai davvero: quella complessa e cupa dell’autore e quella semplice e dettata dalla contingenza della prostituta che, senza porsi domande, si impegna nel suo mestiere, incapace di cogliere il dolore che scandisce le ore del poeta (“è così dolce la sua ignoranza della tristezza”). Un tipo di inettitudine, quella della ragazza, che genera un contrappunto con l’altra inettitudine, quella dell’autore stesso.
La distanza tra Fais e la facciata del mondo si fa solido vetro ne Il negozio delle estetiste, luogo sicuro in cui “la vetrata le protegge, come in un acquario/ e io osservo quella vita per me così esotica e pacifica”. Il poeta sta fuori ed è spaesato, è lo stranger che si interroga sul suo posto nel mondo, sicuro già di non trovarlo mai. Egli osserva, talvolta preso dagli Unknown Pleasures (Sconosciuti Piaceri), quella vita che non gli appartiene, incantato e disilluso al contempo. Chiuse nel loro mondo “altro”, trasparente come un acquario, le belle estetiste provano disgusto alla vista dell’uomo, di quello strambo pesce fuor d’acqua che le scruta dall’esterno, da un altrove per loro ignoto e incomprensibile (“Io sono dall’altra parte”).
L’opera procede febbrile, il lettore naviga tra notti insonni e camere da letto, stanze d’amore dove l’amore si fa e si chiama per nome, o dove lo si custodisce pezzo per pezzo dopo che è esploso in frantumi, tanto taglienti da conficcarsi nelle vene più nascoste e nei canali indicibili dell’essere.
Un essere, quello di Fais, che si dispiega in sé stesso e in un’alterità inafferrabile, che si modella nell’esistenza di uomo Irrisolto, come il titolo di un’altra poesia. Ancora, l’opera si sviluppa intorno a una concatenazione di ricordi e illusioni, entrambi vissuti come fughe felici dalla desolazione del presente e come pesanti croci da trascinare fino alla fine, fino a un’orrenda morte della quale già si sente l’odore d’ospedale e il rumore del ciabattare di infermiere indaffarate.
In Metafisica, nemmeno la visione di un film porno sembra offrire un momento di pace all’autore, rivelandosi subito miraggio e non vera oasi dove riprendere fiato: l’attrice, dopo aver riso di un matrimonio in corso giù a terra (“devono essere in un grattacielo”), invece di gettarsi nuda tra le braccia dell’attore, si ferma a fissare l’empireo, atterrita dalla sua sconfinatezza e da quella incombenza opprimente. Ancorato a terra e proiettato in cielo come il palazzo, il poeta si perde nei gesti insolitamente familiari di quell’attricetta di second’ordine, che si “spoglia distrattamente/ mentre pensa in silenzio/ a qualcosa che non riesce a dire”.
L’alba è una stronza come te, un’opera apparentemente senza pretese, è la confessione del figlio di due secoli, dell’incontro/scontro tra una fine e un inizio, è un diario che svela qualcosa di più dopo ogni lettura, o rilettura: non resta, egoisticamente che sperare in un seguito, in un secondo album di questo cantore a cui manca solo la musica.
Melania Acerbi
L’AUTRICE
Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Fonda nel 2017, insieme a Piero Manetti e al professor Igor Melani, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming).