CONTRORDINE COMPAGNI, IL VINO È RAZZISTA (di Davide Cavaliere)
Nell’era demenziale dell’antirazzismo militante e dei Black Lives Matter, tutto è troppo bianco, problematicamente bianco, compreso il vino.
Non esiste industria o istituzioni che non debba fare i conti con un antirazzismo isterico e delirante, comprese le cantine delle aziende vinicole.
Non stiamo scherzando. Il prestigioso Financial Times, uno dei quotidiani più antichi e autorevoli del pianeta, lamentava che c’è “troppo vino bianco”. Il redattore Jancins Robinson ha prima scritto un tweet allucinato: “Peccato per la mancanza di diversità etnica nel mondo del vino”, per poi continuare con un articolo di imbarazzante stupidità. La Robinson ci informa che l’industria del vino è “prevalentemente bianca” e chiede, con piglio rivoluzionario, di “decolonizzare il vino” e aprirlo alla diversità razziale.
Chiunque abbia un minimo di cultura sa che il vino è in realtà molto vario. Non solo proviene da tutto il mondo, ma è disponibile in diversi colori, sfumature ed esiste in culture diverse. È menzionato nella Bibbia, nei poemi omerici, in antiche poesie cinesi e in versi dell’India di duemila anni fa. Ma non basta, è troppo europeo, troppo bianco, troppo tradizionale. Il vino, bevanda universale della storia umana, non è abbastanza meticcio. Almeno non lo è più dalla morte di George Floyd, il Messia afroamericano che ha dato la sua vita affinché il vino fosse “decolonizzato” e “nerizzato”.
Nei due mesi trascorsi dalla morte di Floyd, alcuni produttori di vino neri hanno denunciato il razzismo nel loro settore”, ha esclamato vittorioso il periodico progressista Mother Jones.
La giornalista Julia Coney, nera, già autrice di un saggio sul razzismo nell’industria del vino, ha pubblicato un video su Instagram intitolato “Racism and the Wine Industry: Your Silence is Betrayal”. Coney, che si è descritta come una leader in “razza e vino”, ha puntato il dito contro i produttori vinicoli “maschilisti” e “razzisti”.
Il settimanale “liberal” Style Weekly ha scritto che “L’industria del vino è stata a lungo enigmatica, ammantata di whiteness, ricchezza e privilegi”.
È la nuova frontiera del vittimismo nero: “l’industria del vino mi esclude e mi discrimina”. Black Lives Matter muterà in Black Wineries Matter e inizieranno a produrre vino per radical chic facoltosi, bottiglie con su il faccione afro di George Floyd e con la certificazione: “prodotto rispettando tutti gli standard delle correttezza politica” o “senza solfiti né suprematismo bianco”.
Le suddette etichette possono apparirci surreali e grottesche, ma non sono tanto lontane da una realtà in cui esiste la Hue Society, ovvero una società che promuove la cultura del “vino nero”, dove “nero” indica il colore della pelle di produttori e avventori. Nemmeno il beveraggio più antico del mondo è innocente, anch’esso deve adeguarsi alla marcia inesorabile del Progresso, schierarsi dalla parte giusta della Storia. Nella Cina comunista gli scienziati missilistici dovevano citare Mao nei loro progetti, esattamente come i loro omologhi sovietici erano obbligati a menzionare Lenin in ogni dove. Ora, in Occidente, ogni impresa deve iniziare con un tributo a BLM e incorporare un proclama “anti-razzismo”.
Non solo razzista, ma anche elitario ed eurocentrico: “Il vino è una bevanda di alto livello per i bianchi di origine europea”, ha affermato Steve Heimoff, ex redattore di Wine Enthusiast Magazine, “Non vedo persone latine o ispaniche che bevono vino, e lo stesso vale per asiatici e neri”. Alla gente come Heimoff non importa che il vino, storicamente, non abbia mai attecchito in Africa, al contrario di ciò che avvenne in Grecia o a Roma. Nella loro logica squinternata è solo una manifestazione della ricchezza dei bianchi, un prodotto intrinsecamente razzista e uno status liquido bevuto solo per distinguersi da neri e ispanici. Poco importa che la Cina sia il quarto Paese importatore di vino al mondo, il Giappone il sesto e Hong Kong, da sola, sia all’undicesimo posto e Singapore al quindicesimo. Il vino è razzista perché non lo bevono i discendenti di Kunta Kinte.
Insomma, la bevanda a cui Pablo Neruda dedicò splendidi versi è una canaglia fascista. Dev’essere democratizzata, aperta alle minoranze, ai neri, come i porti e gli orifizi più intimi. La lotta razziale passa anche per i calici e non è mai stata così etilica.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais, del giornale online “Il Detonatore”.
Morelino, Negroamaro e negronetto vanno aboliti dal commercio infatti…