RACCONTO D’ESTATE – TRAVOLTI DA UN DOLOROSO DESTINO IN UN AZZURRO MARE D’AGOSTO (di Matteo Fais)
Qui il mare tende al verde smeraldo e, senza gradualità, si tuffa in lontananza in un blu cupo che lo assorbe. Ma io ti ho cercata fin sulla strada sterrata, afosa e deserta, che conduce alla spiaggia.
Il tuo fantasma mi precedeva, come tu quel giorno. Correvi da una parte all’altra. Fotografavi qualsiasi cosa. Ogni pietra, ogni sagoma di collina era stupore per te. Invidiavo il tuo essere straniera nel mondo che io conosco così bene, fino a non vederlo più.
Io guardavo te. Il mio passo era così stanco. Il sole mi pesava sulle spalle. Ma c’eri tu. Avevo un dolce mal di mare a tenerti gli occhi addosso. Quale sogno rincorrevi? Sentivi anche tu che tutto diveniva ricordo troppo in fretta?
Provavo a guardare il mio universo attraverso i tuoi occhi. Era finalmente vivo. I colori esplodevano. La strada era una corsa a perdifiato. Il vento scuoteva il mondo dal torpore.
Adesso mi siedo lì, dove eravamo insieme. A un passo, tu. Io facevo finta di essere impegnato, per spiarti meglio di sottecchi. Tu eri sempre presa da qualcosa, con passione leggera e un’aria innocente. Io avrei voluto morire mentre ti guardavo vivere.
Ti voltavi per il tempo di un sorriso. Io interrogavo la tua gioia con gli occhi strizzati dalla luce. E quella mattina, l’ho compreso: la felicità è possibile. È la linea del tuo profilo che non saprei mai ricostruire. La bocca che si apre sul bianco dei denti, sul silenzio delle parole invisibili.
Tutto quel tempo mi sono chiesto perché ti girassi verso di me? Dunque, io esistevo? Tutte le mie stanchezze, le miserie, la nevrosi sin nei piedi che rovistavano la sabbia come se mi stessero scavando la fossa.
Era bello essere vivi, senza travagli.
Ora guardo tutte quelle minuscole rocce ridotte in frantumi. Mi domando quali siano quelle che ti hanno toccata. Sei stata qui e da qualche parte c’è la memoria di te che i bagnanti hanno scosso ignari.
Ti vedo, ma non posso toccarti. Resti lì, finché non mi avvicino, fintanto che conservo le mani contorte sul grembo. Ti allontani e torni. Il cuore, però, non si stanca di questo gioco atroce di lontananza.
Per fortuna, nessuno sa della mia pazzia. Gridano, strepitano. Io pianterei un altare in ogni punto in cui ti ricordo e mi inginocchierei. E fisso il mare come se dovesse restituirmi il cadavere di un sogno.
Poi, sei partita. Gli ultimi baci sono così, sempre dati di fretta. Non bisognerebbe mai baciarsi prima di partire, per non avere sulle labbra quel sapore di addio, la nausea del “la rivedrò?”, la rabbia per la vita tanto abile a recidere e mutilare.
Torna. Sono così bravo ad attendere, a sgranare i secondi e i secoli, le ore, le rassicurazioni e i timori infondati. Veglio, tremo. Sto di fronte al mare, sapendo che le acque si spalancheranno.
Matteo Fais
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