INVITO AL VIAGGIO – BOSA, IL PAESE DEL SILENZIO (di Matteo Fais)
Entrando a Cagliari, sul retro del primo centro commerciale della città, lungo un muro scrostato, un gigantesco graffito urla a caratteri cubitali “A foras sos turistas” (Fuori i turisti). Un’accoglienza che è uno sguardo torvo allo straniero, prima di mostrargli la lama del coltello.
Nello spirito di molti sardi forse regna ancora l’atavica convinzione che chi viene qui, dal mare, lo faccia solo per sfruttarci e oltraggiare la nostra terra pisciandoci sopra, come fecero del resto tutti i conquistatori. I turisti, in effetti, non ci hanno mai convinti: vogliono divertimento e comodità, ma della nostra Isola se ne fottono.
C’è una strada, infatti, molto più in là del Capoluogo, almeno 40 chilometri prima di Sassari, che sembra fatta proprio per scoraggiare i visitatori meno determinati. È anche facile smarrirsi seguendo i suoi giochi di cartelli volti più a far perdere che a indirizzare – sospetto ci sia una volontà maligna dietro. Quegli ultimi 20 chilometri di curve – loro dicono 20, ma a me sono sempre sembrati di più – conducono a Bosa.
I colori abbaglianti delle vecchie case dei pescatori, con il loro riverbero, bruciano la retina proprio poco prima degli ultimi tornanti in discesa – uno cerca contorni netti, ma scorge da prima solo una tavolozza di tempere esplose, di macchie luminose indistinte come promesse. La fascinazione, quella che porta a fissare meglio il paesaggio urbano per distinguerne i tratti, toglie attenzione alla strada e può risultare fatale – fermate la macchina sul lato strada, datemi retta.
Sprofondando nella valle, bisogna avere solo un attimo di pazienza. La modernità è arrivata anche qua. La prima cosa che si vede, all’ingresso del paese, è un market, probabilmente un discount. Andate dritti, correte verso il ponte.
Una striscia di pietra rossa unisce i due lati del paese, mentre sotto il fiume Temo scorre seguendo i corsi e ricorsi della marea e le barche con le reti aspettano l’uscita della sera lasciandosi asciugare dal sole. Abbandonate la vostra macchina prima. Bosa è un sito da percorrere rigorosamente a piedi. Non fate come tutti quelli che vorrebbero sfrecciare anche lì dove inizia la zona pedonale, neanche si trovassero a Milano, essendosi portati dietro la fretta di far tutto in tempo utile. Tanto a Bosa bisogna tornarci. Sarà il cuore a costringervi.
Passate sul ponte, fermatevi al centro, disturbate il traffico e osservate le ex concerie che si guardano con i palazzi di fronte, fissandosi con dolcezza, da più di un secolo, come due vecchi coniugi, che invecchiano l’uno sotto lo sguardo amorevole dell’altro. Il fiume li riflette e vien quasi voglia di camminare sull’acqua per vedere se poi effettivamente non ci siano delle dimore anche sotto la superficie, sul letto del fiume.
È d’obbligo fermarsi un secondo al bar oltre il ponte. Fatevi un bicchiere di vino – tanto state per sudarlo. Da Zio Tore, così si chiama quell’agglomerato di sedie un po’ sbilenche e tavoli traballanti, in cui i turisti convivono, in una stramba promiscuità da acquario, con i pochi sopravvissuti del posto. Se qualcuno, dopo averci scambiato due parole, vi chiede “Cosa bevi?”, rispondete “Quello che bevi tu” – che sarà vino o birra, ve lo dico subito. È un gioco che bisogna fare quello di pagare un giro a testa. Chi non beve in compagnia è una carogna, oppure ha paura di sé stesso. Peraltro, il vino che hanno a Bosa è squisito. Sappiate che, se il barista versa con parsimonia, è perché probabilmente avete una faccia da rompicoglioni.
Ma non perdete troppo tempo. Prendete subito la stradina che conduce verso il corso. Prima, però, entrate in cattedrale. A Bosa, Dio esiste anche per gli atei ed è un misto tra quello cristiano e Nettuno. Certamente, tra le mura della chiesa ha portato un fresco di salsedine, un sentore di luce celeste come quella del cielo e, ovviamente, del mare più terso.
Poi viene il Corso. È la parte più turistica, ma è d’obbligo passarci per un veloce saluto. Guardate davanti a voi, poi giratevi. Ci sono prospettive incredibili che vi attendono lungo quella via. Del resto, siete qui per consumarvi gli occhi.
Ma è adesso che viene il bello. Prendete un vicolo, uno qualsiasi, possibilmente il più stretto – quello ideale, secondo me, sta vicino alla piazza interna del Corso. Inoltratevi, senza paura. È arrivato il momento di perdersi. Più entrate nei vicoli, più la gente si stanca e spazientisce, scompare. È lì che ascolterete Bosa.
Una volta compiuta la scelta di abbandonarsi a questo dedalo, non abbiate timore a essere indiscreti. Rubate ogni colore e voce, osservate attraverso le porte che i bosani lasciano spesso aperte. È pieno di vite che non conoscete, come tanti personaggi di un monumentale romanzo. Del resto, lì dove c’è una porta aperta, c’è qualcuno che non ha paura di lasciarsi guardare.
Sappiatelo, ci sono tante scale da salire. Scale che sanno di fatica, di gente che ogni giorno, dopo il lavoro, si è dovuta guadagnare la strada verso casa passo dopo passo. Nessuno, neanche i burocrati, sa quanti vicoli e scalinate ci siano a Bosa. E, poi, del resto, cosa vorrà mai dire un numero! Bosa cresce ogni volta che l’attraversate. Probabilmente, ci sono vicoli che nascono e muoiono appena uno li varca.
Ogni volta che sono andato verso la zona più alta, Sa Costa, mi sono felicemente smarrito e ho pensato che forse non avrei più ritrovato le stesse vie, che alcune le avrei viste solo una volta, perché non si sarebbero più mostrate. E spesso, da solo, cercando di fare il più piano possibile, ho ascoltato i miei passi dileguarsi e allontanarsi da me. Sono rimasto col silenzio.
Sì, ne sono certo, l’ho sentito. Era un qualcosa che si sprigionava dalle case, dai loro colori che aspettano in un grido senza voce. Il silenzio era il calore della pietra che ho accarezzato con la mano come forse mi è successo solo col corpo di una donna. Era il sole che aveva bruciato ogni traccia di vita dalla strada. Io lo so. L’ho visto, come in I limoni di Montale – c’erano anche quelli, con i loro rami, ma non ricordo da quale casa si sporgessero a fissare muti la via.
Ho pensato molto a quei versi, mentre camminavo come un viandante, un pellegrino alla ricerca della visione, sollevato persino dal doloroso torpore della sete: “E andando nel sole che abbaglia”. Lì ho visto anche i “cocci aguzzi di bottiglia” alla sommità del muro, luccicavano come smeraldi dei poveri, come una ricchezza a cui nessuno fa caso.
Alla fine, non vorrete più uscire, ritrovare la strada dove le persone si incontrano e riempiono l’aria di parole. Quell’atmosfera è ormai irrecuperabile, una di quelle esperienze che non sembra possibile aver vissuto realmente. Bisognerà tornare. Cercare un’altra volta. Il silenzio è ancora lì da qualche parte, in un tempo eterno di pietra che attende.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.