SCRITTORI ANTICOMUNISTI – CZESLAW MILOSZ (di Davide Cavaliere)
Quando i lavoratori di Danzica inaugurarono il monumento commemorativo ai loro compagni uccisi dalla polizia comunista, v’incisero due iscrizioni alla base: la prima era composta dai versetti del Salmo 129; la seconda da dai versi del poeta lituano-polacco Czesław Miłosz, che recitano: «Tu che hai fatto del male a un uomo semplice, non sentirti sicuro: perché un poeta ricorda».
Per il loro autore, il riconoscimento da parte dei lavoratori di Solidarność deve aver significato sicuramente più della vittoria del Premio Nobel per la letteratura. Quest’ultimo, dopotutto, ha una valenza formale, mentre l’omaggio di Danzica costituisce una rivendicazione dei valori più profondi dello scrittore; anzi, di ogni scrittore: salvare la memoria.
Miłosz non ha mai redatto un solo romanzo. Fedele, però, alla preservazione del passato, ha romanzato i suoi ricordi, trasformandoli in opere straordinarie a metà tra il mémoire, il saggio storico e una singolare archeologia dei processi creativi e dei motivi interiori che hanno plasmato la sua arte. La mia Europa è uno di quei libri inusuali, refrattari a ogni «genere», dunque condannati alla dimenticanza da editori e lettori.
Basti pensare che uno di questi «romanzi» – chiamiamoli così per semplicità –, perdipiù uno dei più importanti nella produzione dell’autore, mi riferisco a Dolina Issy, non è mai stato volto in italiano dal polacco – ne esiste però una più accessibile versione francese, tradotta dalla filosofa Jeanne Hersch, Sur les bords de l’Issa.
La mia Europa comincia, idealmente, là dove terminava La mente prigioniera, al capitolo in cui l’autore tracciava il destino dei popoli baltici calpestati «dall’elefante della Storia». Miłosz, nato nella Lituania, allora facente parte dell’Impero russo, nella sensibilità e nella memoria, rimase profondamente legato a quella terra dove la Polonia e la Lituania si lambiscono, un frammento di Europa a lungo trascurato dalla civiltà: «Per secoli e secoli, quando sulle rive del Mediterraneo nascevano e si sgretolavano i regni e innumerevoli generazioni si tramandavano raffinati peccati e divertimenti, il mio paese natale era una foresta vergine, visitata lungo le coste soltanto da navi vichinghe».
L’intento iniziale del libro fu quello di «avvicinare l’Europa agli europei», perché essere un europeo orientale – ma non un russo o uno slavo! – significava sentirsi estranei, e tali essere ritenuti, anche nell’Europa occidentale: «basta essere nativi delle regioni del dell’Est o del Nord, meno frequentate dai viaggiatori, per diventare uno arrivato dal Settentrione, territorio del quale si sa soltanto che vi fa molto freddo».
La Lituania ebbe un passato di modesta gloria ma, pressata tra Polonia e Russia, subì un destino simile a quello della Polonia tra la Russia e la Germania. Sensibile ai miti del suo regno natale, Miłosz imparò presto a disprezzare i nazionalismi che, nell’Europa orientale, aizzavano popoli oppressi contro altri popoli oppressi. Un atteggiamento al cui sviluppo contribuì il mestiere del padre, un ingegnere ferroviario affascinato dai grandi spazi, che per mestiere condusse la famiglia fino in Siberia, ai confini con la Cina.
La Prima guerra mondiale sorprese i Miłosz proprio mentre si trovavano in Russia, ne seguì un lento ritorno a casa, che permise al piccolo Czesław di formarsi una sua peculiare sensibilità nei confronti di quella nazione: «Siamo avvezzi a dividere gli uomini in categorie. Di importanza non minima è la divisione tra coloro che conoscono la Russia e coloro che non la conoscono; […] Questa conoscenza non necessariamente deve essere consapevole. È incredibile quanto dell’atmosfera di un paese possa penetrare in un bambino. […] Assimilavo per sempre quel senso di latente terrore, di dialoghi inesprimibili tra sussurri o ammiccamenti».
Questa conoscenza diretta del mondo russo lo preserverà da ogni forma di slavofilia e sovietismo, quelli che conquisteranno innumerevoli europei dell’Ovest, più attratti dalle spesse mura del Cremlino, dai bulbi della Cattedrale di San Basilio e dalle effigi di Lenin, piuttosto che dalla nobile e malinconica Polonia. Una diffidenza, quella di Miłosz verso la Russia, che si estende anche alla letteratura di quello sconfinato Paese: «La “profondità” della letteratura russa mi è sempre parsa sospetta. Che ce ne facciamo della profondità, se bisogna pagarla a un prezzo troppo caro? Tra due mali non preferiremmo forse la “piattezza”, pur di avere insieme ad essa case ben costruite, uomini sazi e industriosi? E a che serve la potenza se è sempre quella dell’autorità centrale, mentre nella negletta cittadina di provincia invariabilmente si ripete la storia del Revisore di Gogol’?».
Tali precoci esperienze, unite al fatto di aver vissuto nell’Europa orientale, dunque sous l’oeil des Russes, gli diedero la maturità intellettuale per vedere nella Russia «una civiltà peculiare, richiusa su se stessa. Non vi è nulla di più ingannevole che l’apparente somiglianza tra lingua russa e quella polacca. Ne traspaiono due tipi umani diversi». Nella Rivoluzione d’Ottobre vide fondersi il socialismo con «l’antico sogno russo di sé come popolo eletto, e i due messianesimi, della classe-redentrice e della nazione-redentrice, si sostenevano l’un l’altro».
Formatosi nella diasporica e poliglotta Vilna, al tempo sotto la giurisdizione polacca, Miłosz si confrontò con una quotidianità culturalmente variegata. Toccanti e sentite sono le pagine dedicate all’ampio quartiere ebraico della città, tuttavia, con l’onestà che gli è propria, l’autore ammette che le circostanze e le sue inclinazioni lo tennero lontano dalla ricca cultura yiddish e dai suoi protagonisti (Baal-Schem-Tow, Nachman di Brazlav, Jizchak di Lublino), che avrebbe a malincuore scoperto solo più tardi, negli Stati Uniti: «Ho potuto conoscerne qualcuno molto più tardi, comprandoli a New York, ossia bisognava imparare l’inglese per toccare questioni che per noi sarebbero state a portata di mano».
Eppure, per sua stessa ammissione, «gli ebrei contribuirono al formarsi in me di un complesso grazie al quale fin da giovane fui perduto per la destra». Ostile per temperamento alle fumisterie del nazionalismo polacco, con la sua grandiosità romantica e il suo deprecabile antisemitismo; refrattario al cattolicesimo dogmatico e gesuitico; sensibile alla miseria economica che conobbe in prima persona, Miłosz si orientò politicamente a sinistra.
Egli appartiene a quegli intellettuali che, dopo aver percorso un tratto di strada coi comunisti – ricoprì brevemente un incarico diplomatico minore per il governo comunista della Polonia nel Dopoguerra –, divennero critici implacabili del totalitarismo e di ogni determinismo storico. Miłosz può essere apparentato a Silone, Camus, Chiaromonte, Paz, Sperber… ossia a quei socialisti sui generis, senza partito, nemici implacabili dell’Unione Sovietica ma sempre alla ricerca di modelli di giustizia sociale che non neghino la libertà individuale.
La sezione conclusiva de La mia Europa riguarda gli anni di Miłosz durante la guerra. Si tratta di resoconti accattivanti di questa e del terrore, di fughe attraverso diversi confini e di atti di resistenza, che rivelano la sua abilità di prosatore. Recluso nella Varsavia occupata dai nazisti, descrisse il General Gouvernement di Hans Frank come un sistema che «non aveva niente a che fare con le necessità belliche», dove «l’ideologia è più forte del senso del profitto».
Nel mezzo della morte e della devastazione, grazie anche all’amico Boleslaw Micinski, che lui chiama «Tigre», Miłosz trova finalmente la sua voce poetica più autentica, in difficile equilibrio tra la poesia come contemplazione dell’Essere o partecipazione alla Storia, dilemma che esprimerà nei versi del suo Trattato poetico: «Molto, molto ci sarà rimproverato./ Perché, pur potendo, rifiutammo la pace del silenzio, / i sogni degni di rispetto sulla struttura del mondo. L’attimo eterno / non ci attirò come doveva, né la purezza dello stile. / Invece volevamo smuovere ogni giorno / la polvere dei nomi e degli eventi / con le parole, poco badando al loro / e nostro svanire, scintillando. / Né il marchio d’infamia che accettammo / era estraneo alle nostre intenzioni: / benché malvolentieri, ne pagammo il prezzo».
Giunti alla fine, non resta che chiedersi quale sia il senso, se ve n’è uno, di questi cataclismi storici. Nelle tragedie l’umanità cerca «l’elisir della giovinezza», ossia la vita trasformata in pensiero, «l’ardore che sostiene la fede nell’universale utilità del nostro sforzo individuale». Per Miłosz «è soltanto a prezzo d’una esperienza così affinante che le vecchie verità appaiono in una nuova luce. Quando l’ambizione ci suggerisce di innalzarci al di sopra dei semplici princìpi morali, custoditi dai poveri di spirito, invece di sceglierli come ago della bussola nella mutabilità, ciò distrugge la sola cosa capace di riscattare la nostre follie e i nostri errori: l’amore».
L’autore sembra fare eco a quanto scritto da un altro intellettuale paradigmatico dell’Europa centro-orientale, Arthur Koestler, quando, nella sua testimonianza sul comunismo, Il Dio che è fallito, scrive: «La lezione impartita da questa specie d’esperienza, tradotta in parola, compare sempre sotto il manto goffo e grossolano degli eterni luoghi comuni: che l’uomo è una realtà, e l’umanità un’astrazione; che non si possono adoperare gli uomini come numeri in operazioni d’aritmetica politica, perché essi si comportano come i simboli dello zero e dell’infinito, che sconvolgono tutte le operazioni matematiche; che il fine giustifica i mezzi soltanto entro limiti assai ristretti; che l’etica non è in funzione dell’utilità sociale, e la carità non è un sentimento piccoloborghese, ma la forza di gravità che mantiene la civiltà nella sua orbita».
Miłosz, come Koestler o Vasilij Grossman, attraversando il Male e facendo esperienza della brutalità insensata della guerra e dei totalitarismi, scoprì alcune verità morali fondamentali e indistruttibili; troppo evidenti, troppo elementari per essere colte in tempo di pace. Il poeta ce le porge con accorata gratuità, risparmiandoci così di doverle imparare a nostra volta mediante l’oppressione e la sofferenza. Un lascito di cui avere cura, che i demolitori e i dileggiatori della democrazia liberale dovrebbero prendere in seria considerazione.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.