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MOSTRE IN ITALIA – EDVARD MUNCH (di Chiara Volpe)

Gli angeli della paura, del dolore e della morte sono stati al mio fianco sin dal giorno in cui sono nato. Mi hanno seguito mentre giocavo, mi hanno seguito ovunque”. Eccolo il doloroso passato di Edvard Munch. Lo ossessionava. Lo tormentava. La sua infanzia fu segnata in maniera indelebile dai lutti familiari, che divennero un soggetto ricorrente nei suoi dipinti: più che riproporli, però, egli voleva cercare le forze oscure e nascoste dell’esistenza umana, intensificarle e dimostrare gli effetti che avevano sulla vita di un essere umano e nel rapporto con gli altri.

La natura è l’opposto dell’arte. Un’opera d’arte proviene direttamente dall’interiorità dell’uomo… La natura è il mezzo, non il fine. Se è necessario raggiungere qualcosa cambiando la natura, bisogna farlo… L’arte è il sangue del cuore umano”. Sono parole dello stesso Munch, che per sempre si aggrapperà al suo vissuto, disperatamente. Quella terribile sequela di lutti che lo avevano privato della madre, uccisa a soli 30 anni dalla tubercolosi, della sorella Sophie, colpita poco dopo dalla stessa malattia e poi ancora del padre, morto improvvisamente e del fratello Andreas.

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Alcuni suoi sconvolgenti dipinti rivelano esplicitamente proprio il bisogno di esorcizzare la morte e il dolore attraverso una rappresentazione di quei momenti indelebili, impossibili da dimenticare. “Credo che nessun pittore abbia vissuto il suo tema fino all’ultimo grido di dolore come me quando ho dipinto La Bambina malata… Non ero solo su quella sedia mentre dipingevo, erano seduti con me tutti i miei cari, che su quella sedia, a cominciare da mia madre, inverno dopo inverno, si struggevano nel desiderio del sole, finché la morte non venne a prenderli”.

La capacità di guardare dentro sé stesso rappresenta forse la vena più innovativa della pittura di questo artista. Le sue opere spalancano le porte all’Espressionismo, i suoi soggetti sono rigorosamente legati alla sua vita anziché alla storia antica, alla religione, alla mitologia, come spesso accade per i lavori di Klimt, Moreau o Gauguin. Munch seguirà un cammino solitario come fu per Van Gogh, trasferendo le proprie emozioni su ciò che lo circonda.

I critici, però, mostravano ostilità nei suoi confronti, per quella ambigua vitalità delle sue opere e per quel loro carattere sinistro e morboso. In realtà, pochi erano in grado di cogliere l’impellente urgenza espressiva, veramente inedita, dietro un’esecuzione apparentemente frettolosa se confrontata ai canoni tradizionali. E queste difficoltà interpretative da parte della critica di fine Ottocento non testimoniano altro che una immensa forza di rottura dell’opera di questo grande norvegese.

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Attratto dai temi dell’angoscia e della solitudine, della morte, selvaggio e raffinato a un tempo, in grado di liberare e rinnovare il linguaggio espressivo rispetto alla tradizione, ha saputo conferire alla propria opera una straordinaria forza evocatrice che nasce dalla necessità di un approfondimento della propria vita e missione, destino dell’uomo, verso una sublimazione dell’esistenza umana in un disegno più ampio e sensato. Dipingere è, quindi, recupero di risentimenti, ansie, emozioni mai sopite, ricordi. In tutto ciò risiede l’unicità di Munch: la condivisione di una soggettività sempre celata e soffocata, con il resto del mondo. Le sue immagini come emblemi universali.

“Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò. I cieli diventarono improvvisamente rosso sangue e percepii un brivido di tristezza. Un dolore lancinante al petto. Mi fermai, mi appoggiai al parapetto, in preda a una stanchezza mortale. Lingue di fiamma come sangue coprivano il fiordo neroblu e la città. I miei amici continuarono a camminare e io fui lasciato tremante di paura. E sentii un immenso urlo infinito attraversare la natura”. Munch stesso racconta in almeno 4 diari l’origine di uno dei suoi dipinti più celebri, Il Grido, simbolo dell’angoscia universale, irrimediabile perdita dell’armonia tra l’uomo e il cosmo, fino a un punto di consapevole non-ritorno.

“Incapace di liberarmi dalla paura della vita e dai miei pensieri di dannazione eterna”, dipinge poi Autoritratto all’inferno, dove rappresenta la propria dimensione esistenziale: si ritrae vivo tra le fiamme. Dichiara: “non ci saranno più scene di interni con persone che leggono e donne che lavorano a maglia. Si dipingeranno esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto e amato”. E lo scollamento tra l’essere umano e il mondo diminuisce, allora, trasponendo nell’uomo contemporaneo e intrecciando con egli un po’ della propria storia personale.

Nel momento più alto della sua vocazione, Munch avverte la necessità di raggruppare alcuni tra i suoi più importanti dipinti che, secondo la sua visione mostrassero la profonda connessione tra l’uomo, la natura e le forze cosmiche, la sintonia tra questi elementi e un ordine superiore: “riunii i quadri e potei così scoprire come parecchi di loro fossero apparentati per il loro contenuto. Una volta appesi insieme, mi sembrò che improvvisamente una stessa nota musicale li unisse. Non avevano più nulla a che vedere con quello che erano stati fino ad allora. Ne risultava una vera sinfonia“.

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Questa nuova sensazione e consapevolezza, lo porteranno a intensificare la sua ricerca verso la realizzazione di opere di ancor maggiore tensione emotiva e anche l’amore allora diventa una lotta universale tra due forze, tra uomo e donna. “Mi è stato attribuito un ruolo unico da interpretare su questa terra: un ruolo caratterizzato da una vita piena di malattie e di avvenimenti dolorosi così come la mia professione d’artista. Un’esistenza nella quale non esiste una sola cosa che somigli alla felicità, e che addirittura non osa aspirare alla felicità”.

La donna che si concede ha la bellezza addolorata di una Madonna incorniciata da un’aureola profana, rossa come sangue e passione. La donna come mistero, santa, puttana e amante infelice devota all’uomo, distrutto dalla battaglia. “I suoi capelli si erano impigliati in me, si erano avvolti attorno a me come serpenti rosso sangue, i loro lacci più sottili si erano avvolti intorno al mio cuore”. In Vampiro l’abbraccio della coppia è un momento di tenerezza ma anche di orrore, l’atmosfera carica di disperazione. La protagonista diventa un demone che getta sul compagno una maledizione che l’uccide lentamente.

Munch vuole che l’opera d’arte sia un’esperienza totale, quasi utopica. Arte come religione moderna e gli artisti dei missionari investiti del sacro compito di salvare l’umanità. “La gente dovrebbe riuscire a capire la maestà e la sacralità che si trova nei dipinti e dovrebbe togliersi il cappello come se fosse in una chiesa”. 

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L’artista muore il 23 gennaio 1944. Nel suo testamento lascia ogni sua opera alla città di Oslo. Si trattava di un patrimonio enorme, specchio della profondità della crisi dell’uomo moderno, del suo essere un piccolo essere indifeso e spiazzato di fronte a grandi misteri, difficoltà e qualche scintilla di luce.

“Attraverso la mia arte ho cercato di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo. Può essere anche chiamato egoismo. Tuttavia, ho sempre pensato e sentito che la mia arte poteva aiutare altri sulla via della ricerca della verità“. E ancora: “ho dovuto percorrere uno stretto sentiero lungo un precipizio. Da un lato, le profondità del mare erano insondabili. Dall’altro c’erano campi, colline, case, persone… qualche volta ho lasciato il sentiero per buttarmi nel mondo vivente dell’umanità e lottare con esso. Ma sempre ho dovuto ritornare sul sentiero sul ciglio del precipizio”.

Munch sarà in mostra a Palazzo Reale, a Milano, fino al 26 gennaio.

Chiara Volpe

L’AUTRICE

Chiara Volpe nasce a Palermo, nel 1981. Laureata in Storia dell’Arte, ha svolto diverse attività presso la Soprintendenza per i Beni Culturali di Caltanissetta, città in cui vive. Ha lavorato per una casa d’Aste di Palermo, ha insegnato Arte, non trascurando mai la sua più grande passione per la pittura su tela, portando anche in mostra le sue opere. Attualmente, collabora anche con il giornale online Zarabazà.

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