883, OVVERO NON PUOI SPIEGARE ALLA GENTE LA SUA TRAGEDIA MENTALE (di Matteo Fais)
Non ho mai avuto fiducia nei lettori – del resto, sicuramente sullo Stivale la Ferragni è più nota di Houellebecq e questo non è un caso –, come peraltro non ne ho mai nutrita nei confronti degli italiani. Puntualmente i primi mi dimostrano, in larghissima maggioranza, di non capire un cazzo di ciò che scrivo, malgrado io pensi e metta giù in prosa immaginando di rivolgermi a un individuo che idealmente abbia appena una buona terza media.
L’articolo dell’altro giorno sugli 883 – in cui la nota band era giusto un pretesto – mi ha confermato la mia fosca visione, oltre a rendermi ulteriormente palese – come se ce ne fosse bisogno! – che non solo è inutile cercare di governare gli italiani, come giustamente disse qualcuno, ma che ancora più velleitario è cercare di spiegare loro qualcosa, perché i più non riescono a leggere un intero discorso arrivando al nocciolo della questione. Le masse non ascoltano quel che dici, sentono parole e hanno reazioni simili a quelle dei cani di Pavlov.
Per esempio, nessuno si è reso conto che il duo Pezzali-Repetto veniva portato in causa unicamente come un mero esempio di tutti quei fenomeni di bassa lega che tanto appassionano questo popolo. Avrei potuto parlare di loro, della Ferragni, di Francesco Totti – del calcio in generale –, di Mike Bongiorno, di Michelle Comi – scegliete il caso che preferite – che poco sarebbe mutato.
Anche perché di per sé non è un problema, come credo di aver già scritto circa ottomila volte, che nell’offerta dell’industria culturale vi sia anche qualcosa di leggero. Il fatto che in tanti abbiano letto la trilogia delle 50 sfumature non è grave, ma che per molti sia l’unico libro preso in mano in un’intera esistenza. Esattamente come i b movies, con Lino Banfi e Alvaro Vitali – che tra i tanti sono gli unici con una dignità artistica –, non costituiscono una minaccia al grande cinema, ma c’è chiaramente qualcosa di sbagliato quando si scopre che molta gente non ha mai visto Fellini, mentre conosce a memoria le battute di Vieni avanti cretino.
Insomma, potrebbe pure starci che uno ogni tanto si ascolti una canzonetta di quei due. Indubbiamente, sono orecchiabili, tutt’altro che spiacevoli. Loro sono più o meno come l’amico che non ha una posizione ideologica, un’idea forte da difendere, una passione totalizzante, e passa la serata a fare battute di spirito: è difficile che si arrivi a odiarlo, dato il suo essere tanto inutile quanto innocuo.
L’aspetto inquietante, come si evinceva da diversi commenti al mio pezzo, era che, per molti quarantenni, quelle melodie si accompagnano a tutta una serie di ricordi dei cosiddetti bei tempi andati, fino a causare un profondissimo senso di nostalgia. Già questo dovrebbe far meditare.
Se uno ancora, superata la fase prepuberale, in teoria in piena maturità intellettuale, si emoziona per i versi di Sei un mito o Come mai, qualcosa deve essere andato storto o inceppatosi nel proprio sviluppo. Sarebbe come ripensare all’innamoramento a 12-14 anni e ritenere sia stato davvero qualcosa di unico e segnante. Se un uomo, a un passo dalla mezza età, crede seriamente questo, psicologicamente soffre di un grave problema. Se al sentimento amoroso associa, in luogo di canzoni come Where the Streets Have No Name o un atto della Traviata (“Un dì felice, eterea, / mi balenaste innante, / e da quel dì, tremante, / vissi d’ignoto amor. / Di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero, / misterioso, altero, / croce e delizia al cor), un qualunque motivetto dei due braccobaldi, vuol dire che ama ancora come un pre-adolescente, ovvero come un completo idiota.
E, in effetti, ciò che i simpatici ragazzoni cantano – ed esaltano – è proprio un mondo e un’antropologia da pirla, da gente che vive con il sogno della moto, rimpiangendo una sala giochi. E qualcuno ha pure osato scrivermi che è meglio il loro disimpegno della prosopopea di Manuel Agnelli, ai tempi degli Afterhours. Come se versi quali “Il vero che muore / Succhiandomi il cazzo svanisce / Il risveglio dal sogno forse uccide / Mai tradisce / E puoi non assaggiare per vedere se il gusto se ne va / O ti devasta, o ti devasta il prezzo che si ha. / Scopami fra / Fiori urlanti, strategie / Insetti malvagi / Da scacciare, maledire” potessero accettare di trovarsi paragonati a quella merda, senza causare l’ira divina.
Tra parentesi, non è che io, come ha sostenuto qualcuno, voglia per forza di cose “essere pesante”, o “fare il radical chic di Destra”. Comprendo bene il linguaggio di rottura, la scelta postmoderna, la contaminazione tra alto e basso. Ho scritto non so quante volte sulla necessità, per la poesia italiana, di adottare una declinazione in linea con questo nostro tempo. Cionondimeno un conto sono le liriche di Simone Cattaneo, un altro le minchiate cantilenanti di Gio Evan. Una cosa è rompere con la tradizione, come ha fatto il primo, e come fece in illo tempore lo stesso Dante già solo scegliendo il volgare sul latino, un altro è scrivere i pensierini della domenica spacciandoli per versi.
Non mi sono neppure mai azzardato a pensare che la musica leggera non possa essere e non sia stata una cosa serissima, una vera e propria forma d’arte. Ma tra gli Smiths e gli 883, Cristo Santo, corre un abisso; tra ” Come mai / Ma chi sarai / Per fare questo a me? / Notti intere ad aspettarti / Ad aspettare te” e ” Sono io oppure sei tu, la donna che ha lottato tanto / Perché il brillare naturale dei suoi occhi / Non lo scambiassero per pianto / […] E prendiamola fra le braccia questa vita danzante / Questi pezzi di amore caro, quest’esistenza tremante / Che sono io e che sei anche tu” c’è la differenza tra il canticchiare al cesso e il ritrovarsi con la voce spezzata dalle lacrime.
Niente da fare, in pochissimi ci arrivano e ancora meno sono coloro che hanno quantomeno la sensibilità per rendersene conto. Non è un caso che gli stadi, ogni domenica, siano pieni, mentre la mostra dei manoscritti originali di Leopardi, in quel di Napoli, anni addietro, fosse semideserta. Qualcuno tolga il tappo a questo Paese e lo lasci affondare.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)
Come sempre esilarante, devastante, mi togli le parole di bocca ma col tuo linguaggio sopraffino esprimi meglio me ciò che vorrei dire.
Se Jeff bezos o Steve Jobs o Elon Musk fossero nati in Italia avrebbero costruito gli imperi che hanno costruito? Se Adele fosse nata in Italia sarebbe diventata una cantante famosa? No, noi abbiamo Angelina Mango, livello tecnico della cassiera del supermercato che canta al karaoke del sabato sera al bar sotto casa. Anzi inferiore, conosco cassiere che fanno cover band dei pink Floyd e cantano the great gig in the sky pure piuttosto bene.
Preparatevi perché ci dovremo sorbire pure la serie su Angelina Mango un giorno. D’altronde cos ha in meno degli 883?
Io tenderei a tenere separate le due questioni.
Che in Italia il panorama musicale sia alquanto lacrimevole non è una novità: da noi si riscalda una stessa minestra da circa 70 anni e, quando si aggiunge qualche ingrediente, tendenzialmente il sapore peggiora.
Fra l’altro, gli 883, pur nella loro banalità, non sono nemmeno il peggio sulla scena musicale (perlomeno, cantano veramente…) e, davanti a un Fedez, possono persino passare per novelli Mozart.
Nel 1975, quando in Italia spopolava Sabato Pomeriggio (Passerotto, non andare viaaaa…) in UK usciva Boehmian Rapsody; non penso di dover aggiungere altro.
Discorso diverso è invece quello riguardante la GURTURA (mi passerai l’espressione romanesca) e la considerazione che mediamente ne ha l’Italico volgo.
Il problema è reale, ma non la vedo nemmeno in termini drammatici: il fatto che si preferisca un filmaccio a un capolavoro di Ingmar Bergman non significa -necessariamente- essere delle capre ignoranti.
Può semplicemente voler dire che, dopo una giornata di ufficio, si ha solo voglia di spegnere il cervello e farsi due risate.
Viviamo esistenze impegnative e stressanti, ragion per cui è abbastanza naturale che, nel poco tempo libero a disposizione, lo spazio dedicato ad attività più impegnative (benché più nobili) sia poco.
Ecco dunque perché la GURTURA sembra riscuotere poco successo.
Ovviamente, un critico musicale, letterario o cinematografico, in ragione del proprio lavoro, tenderà spontaneamente a preferire le opere più ricercate.
Identico discorso vale per chi abbia a disposizione più tempo libero.
Non si tratta, in ogni caso, di un fenomeno prettamente italico: le mostre dedicate a Leopardi non riscuotono maggior successo di quelle che, nell’anglosfera, vengono quelle dedicate a Shakespeare o in Francia a Flaubert.
Non è nemmeno un fenomeno nuovo, giacché la GURTURA è da sempre cosa per pochi (un tempo i più erano addirittura analfabeti).
Scaccerei dunque la tentazione di indulgere alla retorica del “Non c’è più GURTURA, signora mia; dove andremo mai a finire…”.
Anche perché non andremo a finire proprio da nessuna parte. Come sempre, del resto.