IL DDL SICUREZZA È UNA PORCHERIA, DICIAMOCELO CHIARO E TONDO (di Ran-Core)
Questo articolo potrebbe benissimo cominciare con una citazione da Star Wars: «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi». Nel nostro Paese non abbiamo l’Impero dei Sith, e neanche più quello novecentesco, ma dal secolo passato ci siamo portati dietro una bella zavorra: l’odio per la libertà.
La democrazia, che a tratti parrebbe avere sempre meno affinità elettive con quest’ultima, almeno in Italia, è sotto attacco da un doppio fronte. Da un lato vige una castrazione dell’espressione operata dai gendarmi progressisti del politicamente corretto, che tentano di ridefinire il diritto a dissentire, portato avanti magari con frasi grette da bar, ma non per questo meno genuino, cercando di ottundere l’estro colorito popolare, talvolta plebeo ma verace e sanguigno.
L’altro fronte d’aggressione non è di natura culturale, ma strutturale e si manifesta nella costruzione di nuovi recinti penali ad opera della Destra.
Pochi giorni fa, infatti, la Camera dei Deputati ha approvato a larghissima maggioranza il Ddl 1660, col quale, senza troppi giri di parole, si istituisce in Italia uno stato di polizia degno di una dittatura sudamericana.
Esso prevede, in sintesi, due anni di carcere per blocco stradale. In caso di proteste nelle nostre carceri, si può rischiare fino a 20 anni. Altrettanto per chi decide di opporsi alle grandi opere.
Ma la misura più vergognosa e liberticida risiede nella possibilita di incorrere in 6 anni di reclusione qualora si propagandasse la lotta, considerata terrorismo della parola. Se non bastasse ciò, persino la resistenza passiva e non violenta può portare a una condanna di 4 anni – per ironia, hanno ribatezzato quest’ultima misura “anti-Gandhi”. Infine si cerca non solo di sanzionare chi occupa abusivamente un immobile, ma persino chi solidarizza con gli occupanti.
Il dato più sconvolgente è sicuramente la volontà di colpire il dissenso, che non è solo un diritto, ma il vero fuoco che alimenta la libertà. Si tenta, in tal modo, di controllare e quindi manipolare la possibilità della protesta, rendendola attuabile praticamente solo all’interno della recinzione istituzionale.
Tal punto, però, solleva una questione fondamentale. L’idea che questa debba necessariamente passare per la partitocrazia significa depotenziarla e riconfigurarla, ricondurre la spontaneità dell’atto in uno schematismo burocratico, gerarchico e verticistico.
La fiamma eterna della contestazione deriva nella sua essenza da due elementi per loro natura non soggetti a vincoli o restrizioni. Il primo è, per parafrasare Curzio Malaparte, la “religione del dolore”: quella spinta volitiva che cerca il cambiamento con il fine di rimuovere la sofferenza per un determinato gruppo sociale, che si tratti della devastazione del territorio e dell’ecosistema, o di maggiori garanzie per il futuro, o qualsiasi altra questione.
L’altro elemento è quello che Deleuze definisce flusso desiderante, il quale si innesta talvolta sul primo elemento, ovvero la realizzazione del desiderio liberato, che è proprio del sistema capitalista, ma che, in contraddizione con il sistema stesso, esso cerca di imbrigliare una volta liberato.
Un altro aspetto da sottolineare è che, spesso – se non sempre -, il dissenso si propaga e inonda le strade e il campo aperto delle città proprio perché non trova riscontro da parte della politica e del Palazzo, quando non viene addirittura ostacolato da parte di essi. A quel punto, la disapprovazione trova il suo terreno nella comunità e nei suoi sottoinsiemi.
È una storia vecchia come il mondo: il potere non può mai assolvere pienamente ai bisogni, né rispondere ai desideri – questo è oggettivo. Il problema non risiede in questo fatto, ma nelle risposte della nuova “nobiltà” desacralizzata alla comunità.
L’unico antidoto possibile e auspicabile è un completo decentramento dei processi decisionali, una totale autonomia della possibilità di incidere da parte dei cittadini, un’orizzontalità dei rapporti contrapposta alla verticalità centralista del Palazzo. Vengono in mente le associazioni di vicinato in Jugoslavia (Mesna Zajednice), un tipo di unità di base di autogoverno. La gente assumeva le decisioni concernenti la propria vita quotidiana e il proprio ambiente. Le persone sceglievano i delegati al governo comunale e nazionale, organizzavano le proprie condizioni di vita e di lavoro, il trattamento dei bisogni sociali, la cura dei bambini, l’educazione, ecc. Ogni associazione aveva i propri statuti creati dagli abitanti della zona. Le decisioni importanti erano assunte con dei referendum. Questo sistema fu elogiato persino in radicali libertari come Rothbard e, successivamente, da David Friedman, figlio del famoso economista Milton.
La strada scelta da questo Governo, in linea con il sistema centralista e autoritario italiano, va in senso opposto, ovvero nel colpire violentemente, con i mezzi dello Stato, il cittadino che disapprova, che vuole fare sentire il suo grido libero, il tutto sotto gli applausi scroscianti o peggio nel silenzio più totale di una massa acritica.
RAN-CORE
BIOGRAFIA DELL’AUTORE
Ran-Core viene costruito a Pisa negli anni ’80. Il nome deriva da Ran, che in giapponese significa “disordine”, “Caos”, e da Core “cuore”. Musicista punk, grafico d’assalto, eretico freelance, satanista e articolista a tempo trovato.