TRENT’ANNI DI GRACE, UN CLASSICO DELLA CONTEMPORANEITÀ (di Matteo Fais)
Non vivere a lungo, ma al massimo, o meglio ancora cercando di dare il massimo con un contributo fondamentale al mondo. Questa l’estrema sintesi della breve esistenza terrena di Jeff Buckley, il quale, mentre era ancora tra noi, riuscì a vedere pubblicato un unico album, Grace, datato 23 agosto 1994 – Sketches for My Sweetheart the Drunk, il secondo in studio, uscirà postumo solo a un anno dalla morte, nel 1998.
Disco struggente e totalmente atipico, quasi che a scriverlo fosse stato un Leonard Cohen nato qualche decennio più tardi dal ben noto cantautore, lo fa ascendere nell’olimpo di coloro che sembrano appartenere a un tempo oramai consacrato.
Non è un caso che proprio la cover di Hallelujah sia contenuta tra le tracce e spicchi fino a confondersi con l’originale, o – sacrilegio – osare superarla, almeno per le nuove generazioni – certo non indegnamente.
Grace ha lo sconvolgente pregio di essere un lavoro di antica fattura, realizzato in piena contemporaneità. In un mondo in cui il frastuono mesto e rabbioso del grunge era recentemente esploso, volgendo presto al termine, e permanendo nei timpani come un ronzio che fatica a scomparire, Buckley dà vita a una musica pulita, diafana, che aspira all’etereo dell’elettrico, con Last Goodbye, Lover, You Should’ve Come Over e Mojo Pin.
Egli riporta in auge il classico, dalla già citata Hallelujah alla Lilac Wine resa famosa da Nina Simone. Le sue canzoni, personalmente composte, stanno accanto a questi capolavori in una dimensione già atemporale, in cui novità e tradizione coesistono, proprio come le più differenti influenze musicali, dalla Classica al Pop, si fondono in una sintesi mai sentita o minimamente forzata.
Non è un caso che tanti grandi abbiano visto qualcosa di unico nel disco – e probabilmente ritrovato molto di sé -, da Jimmy Page e Robert Plant dei Led Zeppelin a David Bowie, fino a Bob Dylan, Bono Vox, ed Elvis Costello. Grace costituiva il completamento di un percorso virtuoso, riprendendone il meglio e danandogli nuova vita.
Jeff Buckley se ne andò di lì a breve, ma ciò poco importa: aveva già fatto quanto bastava per giustificare un’esistenza. Unico figlio d’arte – il padre era il sommo Tim Buckley – dotato di un merito pari, se non superiore al genitore, egli ha lasciato orfana una generazione.
L’unica cosa realmente tragica, in questa storia, è che nessuno venuto dopo di lui sia riuscito a spingere la musica un passo oltre. Taylor Swift potrà anche riempire gli stadi che Jeff non si sarebbe neppure sognato, ma di lei la storia non conserverà neppure una nota. La musica era finita molto prima.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).