Il Detonatore

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“LA VERA STORIA DI BORE LAMPA” – UN RACCONTO DI SALVATORE NIFFOI

Pubblichiamo, con grande gioia, un racconto di cui ci ha fatto dono lo scrittore Salvatore Niffoi, Premio Campiello 2006, ringraziandolo per la fiducia accordataci.

Fu esattamente il 20 di marzo del 1915, alle ore 20 in punto, che a Scuricosu avvenne il miracolo. La spada della primavera aveva come al solito spaccato in due la mela del tempo con un taglio preciso, mettendo sulla bilancia una fetta di luce e una fetta di buio che prima si bisticciavano fra loro come i pezzi rotti di un magnete. 

Quello era l’unico giorno dell’anno in cui l’alba e il tramonto facevano pace e si dividevano in parti uguali il regno delle tenebre e quello del sole. Era, appunto, perché dal momento che tziu Predu Buttoneddu spense per sempre gli ultimi 25 fanali ad olio per accendere le prime 50 lampadine elettriche che illuminarono il paese non fu mai più così. 

Il vecchio lampionaio, che per vocazione era anche il sacrestano della chiesa majore di Scuricosu e il cantore solista del coro gregoriano della parrocchia di Santa Maria delle vedove scalze, quella sera si fece prima il segno della croce per invocare la protezione di Dio contro le possibili sventure della modernità e poi si grattò i santissimi per rispetto verso la tradizione. 

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Il miracolo vero e proprio non fu comunque opera della divina provvidenza ma del signor Carlo Maria Merlino, un ingegnere continentale che aveva sposato una ricca signora locale e in segno di riconoscenza, in un esteso podere del suocero don Luigi Galiseri, aveva fatto costruire uno sbarramento lungo il fiume Crapinzone. La diga e la centrale elettrica sono in funzione ancora oggi e rappresentano con orgoglio l’incrocio della lentezza degli isolani con la frenesia dei continentali. 

In cambio del suo lavoro l’ingegner Galiseri non chiese nessuna remunerazione ma semplicemente un favore al sindaco Andria Coperciu e al parroco don Luisi Predungianu. Si trattava semplicemente di cambiare nome al paese ribattezzandolo Lughentis, in onore della luce perpetua. L’ingegnere fu accontentato e riconosciuto da tutti come il padre di quella rivoluzione che aveva illuminato le case e le strade del paese portando la luce anche negli angoli più bui delle case in granito dove la gente si coricava insieme alle galline e si alzava al canto del gallo. 

La vera rivoluzione si fece comunque sentire prima di tutto all’ufficio anagrafe, dove l’impiegato tziu Antoni Chiolu non faceva in tempo a registrare nuovi nati con nomi strani tipo Marconi, Volta, Amperio e Vattore. Bambini comunque a Lughentis ne nascevano sempre meno perché gli uomini accendevano di meno la candela e le femmine stavano attente a quando mettere il seme nel solco. 

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Il più bizzarro di tutti gli abitanti di Lughentis fu Bore Marzule, uno che non si era mai laureato ma aveva in testa più scienza di cento dottori e mille filosofi. Per lui tutto quello che era progresso era rivoluzione, roba moderna da prendere al volo prima di buttare il vecchio arrugginito dentro la latrina del suo cortile. 

L’anno del miracolo della luce elettrica ebbe il coraggio di cambiarsi il cognome e di sposarsi in comune dove fece accendere nell’aula consiliare a sue spese cento lampadine che aveva colorato di persona una ad una. Non più Bore Marzule ma Bore Lampa

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La moglie Cicita Padulisfu contenta di quella sua scelta e della decisione di dare ai propri figli nomi al passo con i tempi. Il primo figlio, un maschio, lo chiamarono Dario e la seconda Dina. Dopo Lampa Dario e Lampa Dina arrivarono a raffica Pila, Dinamo, Abajuro, Lucetta, Valvola, Contatore, Fusibile, Culombo e Beniamino, undici in tutto.

Stanca di sfornare creature, fu la moglie Cicita a costringerlo a spegnere l’interruttore che Bore Lampa teneva sempre acceso. Una notte glielo disse in faccia chiaro e tondo: “Caro Bore, se vuoi altri figli, d’ora in poi te li fai e te li cresci, perché io sono nata femmina e non voglio morire coniglia. Mi vedi? Guardami bene, ho trentadue anni e ne dimostro novanta, per colpa tua non sono più cosa da vedere, né alla luce né al buio!” 

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Bore Lampa di quel rifiuto non riuscì mai a farsene una ragione. Cominciò a prendersela con tutto quello che luccicava perché secondo lui la colpa della sua disgrazia era da cercare nell’arrivo in paese della corrente elettrica. Malediceva a tutte le ore l’ingegnere Carlo Maria Merlino e una notte arrivò al punto di imbracciare il fucile e fulminare a spallettonate le 50 lampadine che illuminavano Lughentis. Il gioco funzionò per un paio di notti ma poi le lampadine vennero sostituite e lui si beccò una denuncia per spari in luogo pubblico, disturbo della quiete, interruzione di servizio e danneggiamento di beni comunali. 

Bore Lampa, più passava il tempo e meno ci dormiva nel letto. La moglie Cicita si dedicava solo ai figli e a lui nemmeno gli lavava più la roba o gli cucinava da mangiare. A forza di pensarci su, una sera d’estate che si era steso in cortile a far sventiare i suoi cattivi pensieri, arrivò a prendere una decisione estrema. “O io o la corrente elettrica, in questo paese non c’è ormai più posto per entrambi!” 

Aspettò che il nuovo orologio della chiesa majore toccasse la mezzanotte e poi, con la scure in mano e la mazza a tracolla si recò nella cabina elettrica che avevano costruito in periferia, nel vicinato di Sa Furredda. Dopo aver sfasciato il portoncino in lamiera a colpi di scure, si chiuse dentro e con la mazza cominciò a dare colpi alla cieca. 

Fu questione di secondi o forse di qualche minuto. In cielo si levò come il lamento di un caprone sgozzato e l’aria divenne irrespirabile in tutto il paese di Lughentis. Odore di carne viva buttata a pezzi sulla brace, di stoffa che prende fuoco, sapore di sogni che diventano cenere.

Salvatore Niffoi

Orani 07/08/2024

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UNA NOTA DELL’AUTORE 
Il racconto rappresenta in modo metaforico il modus sardonicus di affrontare il progresso e la modernità in genere, con un entusiasmo iniziale che rasenta il furore e l’invasamento, una tristura finale ai limiti dello sconforto disperato. 
L’abitudine di innamorarsi ad occhi chiusi del nuovo prima di rinnegarlo e buttarlo a mare per rispedirlo là dove era partito, a Lughentis, è diventata nei secoli consuetudine ineluttabile come il male o la morte. 
Nella storia l’unica che riesce a vedere la realtà con gli occhi del disincanto femminile è Cicita che alla fine, dopo undici maternità forzate, si riscatta tagliando il cordone ombelicale dell’esotismo patriarcale con un gesto di ribellione rivoluzionario, in un paese che vive di valori pataccari ormai desueti e diventati inutili come una maschera indossata il giorno di ferragosto.
Salvatore Niffoi 
Orani 12/08/24

SULL’AUTORE: https://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Niffoi

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