Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

ILARIA PALOMBA, “SCISMA”: UN MANIFESTO DI LOTTA (di Matteo Fais)

Ilaria Palomba qui nella foto di Dino Ignani

“Videro crudeltà, non tristezza,/ i miei occhi e mi condannarono/ a rinascere” (Ilaria Palomba, Scisma, Les Flâneurs).

Per quanto suoni di imperdonabile cinismo, bisogna riconoscere a Ilaria Palomba, sul versante poetico, di indossare la corona di spine con singolare leggiadria, come una ragazzina se ne va in giro con il suo abito estivo. C’è probabilmente in lei anche un appena celato compiacimento per la Passione e il Golgota, ma questo è un particolare secondario sulla scena del crimine, al cospetto dell’encomiabile lavoro compiuto dall’assassino che ha volutamente lasciato, alla polizia e alla scientifica, una composizione di agghiacciante perfezione.

Mirabile poemetto questo Scisma, in uscita a settembre per Les Flâneurs e attualmente in preordine. Una Divina Commedia con tanto Inferno – o meglio in cui il Purgatorio e l’Inferno si confondono – e certo poco Paradiso. Si legge tutto d’un fiato, lasciandosi mozzare il respiro, con la sensazione di cadere nel vuoto. Per goderselo al meglio, concentrandosi sulla disturbante qualità poetica, è consigliabile prescindere dalle questioni biografiche, segnalate a margine, come “la lunga degenza nell’unità spinale del CTO di Garbatella”. Un poeta è sempre meglio che viva nell’impersonalità per non farsi personaggio, per non suscitare una pelosa pietà nei lettori. Similmente, si può anche fare a meno di pensare che a scrivere sia una donna – l’empatia a prescindere per tutto ciò che proviene dal femminile è disgustosa e, quella sì, davvero sessista.

Del resto, Scisma è tutto fuorché il canto straziato di una vittima vezzosa. “È finita la pazzia, ho nostalgia/ degli atti estremi, della libertà/ di uno sbaglio”: queste sono parole forti, scritte con vigore, non certo impresse sulla pagina con matita spuntata. A volerla dire tutta e sperando che nessuno se la prenda, la poetessa sembra avere un modo di soffrire, per così dire, spiccatamente virile, consapevole e stoico (“Tutto il dire è un mentire,/ resterà il silenzio sulla/ battigia, nudo desiderio/ che non muore”).

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E, infetti, in questo percorso di annientamento e ascesa, l’io narrante non pare minimamente in balia degli eventi o trascinato lungo i corridoi dell’esistenza su una barella. Piuttosto ci fa i conti, affronta la vita a viso aperto, nel conflitto ma animato da una volontà che difficilmente manifesta arrendevolezza, anche negli istanti più bui (“Non conosco rifugio,/ la vita mi ha tradito/ illudendomi. È rimasto/ l’amore, il miracolo del/ sentire. Il sole abbacinante/ dell’ospedale. Non chiedermi/ nulla. È tutto bucato dal/ ricordo. Non resta/ che uno sguardo”).

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Certo, qui, tra versi e prose poetiche, si gioca pericolosamente con strumenti affilati, in un’inquietante e conturbante danza, tra nichilismo, martirio e autodistruzione (“Ho paura del fuori […] Se solo potessi tornare indietro, se potesse il tempo scorrere a ritroso. Non può. Io sarò immessa nel mondo, nella stessa follia cui volevo sfuggire. Avrei voluto donarmi, con la capacità di un corpo di donna. Un segmento frammentato, una linea interrotta. Ossessioni e volti. La croce che devo portare allontana, è l’interruzione dell’esistenza. Ho consegnato alle orchidee il mio destino, e un destino infuria ogni volta che decidiamo di arrenderci. Una resa mi vive ancora dentro, ha messo radici. Rinuncia al tuo nome […] Al nome di una martire nel nome di niente. Dove volevi arrivare? Schivavo la vita con tutte le forze. Edificavo la mia causa nel vuoto”).

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Eppure c’è fin troppo rigore per poter parlare semplicemente di abbandono, di una resa incondizionata. Anzi, ben nascosta e sottotraccia, dietro quel certo gusto per il compiacimento, vi si potrebbe scorgere una spiazzante ironia (“Le ossa sporgono dappertutto,/ si piaga il ventre,/ e io, sola in mezzo agli altri,/ festeggio la pura imperfezione”).

Sì, decisamente, in Scisma, la consapevolezza esistenziale fa il paio con quella poetica. Si sente dal tono, dal verso senza cedimenti, potente (“Non cercare di imitare/ il suicidio. Non a tutti è/ dato di andarsene ora./ Resta. Non ignorare/ il dono, non è un dono,/ si paga con la colpa,/ con l’immondo”). Persino il gesto estremo che sta alla base di tutte queste meditazioni è una presa di posizione da cui traspare forza e volizione (“gravitare nell’aria imabastire una libertà”). Insomma, potrà anche sembrare pieno di oscurità, ma non è certamente un libro contro il mondo e contro la vita. Casomai, un manifesto sul senso della lotta, sulla fatica di dirsi Io. Tutto, ma non un tentativo di fuga.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)

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