SHANNEN DOHERTY E IL NOSTRO ESSERE PER LA MORTE (di Matteo Fais)
Era abbastanza prevedibile che la morte di Shannen Doherty cagionasse un cordoglio generalizzato, sui social, in una generazione, nata tra la fine dei ‘70 e l’inizio degli ‘80, cresciuta nelle prime manifestazioni dell’iperrealtà televisiva – quella che qualcuno, ora, si affanna addirittura a rivalutare. Il nostro esistere si spostava quasi totalmente nella comfort zone di un tubo catodico.
Beverly Hills 90210 ha segnato l’immaginario, plasmato un’antropologia ludica e tendenzialmente superficiale, priva di ombre e contrasti, in cui il negativo, la disfatta, la solitudine, la malattia e la morte non rientravano nell’orizzonte. Piaceva, insomma, per lo stesso motivo per cui il bambino ama le caramelle o il matto lo zucchero – perché la vita era infinitamente leggera tra quei fotogrammi saturi di problemi ininfluenti, di adolescenti sempre ben pettinati e in Porsche.
I valori proposti erano decisamente quelli di un’esistenza inautentica, adolescenziale, mitologizzante del nulla che, infatti, negli ultimi decenni, ha unicamente portato alla produzione di infiniti remake, restauri e rilanci del passato, in un perenne tentativo di fuggire dall’incedere del tempo e l’incombere del futuro – da qui il culto del passato, per quanto ben lontano da una grandezza che lo giustifichi.
Ma inesorabilmente la vita presenta sempre il conto. Non c’è fuga dall’esistenza, dunque ecco la morte entrare in scena prepotentemente, come ogni volta, senza mai rispettare la sceneggiatura che avevamo scritto per lei. E quando lo fa, seppure dalla porta di servizio, non è per ricoprire il ruolo del personaggio secondario. Ogni storia inizia o finisce dalla morte.
Doherty è andata: non si potrà più trovare rifugio negli anni ‘90, in un sogno di pubertà infinita. Non siamo più innocenti. Ci scopriamo mortali, caduchi, transeunti. Tendiamo alla decomposizione, allo sviluppo malato di tutte le tossine accumulate. Siamo cellule che attendono di impazzire.
Quello che il suo trapasso insegna è la necessità di tornare ad abitare il tempo che è sempre il nostro ed è adesso, malgrado la progettualità e la dimensione del ricordo, proprio perché può negarsi in ogni momento. La morte è la possibilità che più intimamente ci riguarda, che ci riporta nel momento, ci impone di non trascurare il susseguirsi dei giorni, di lasciarci alle spalle ciò che è stato prima di aver iniziato a pensare concretamente nella prospettiva della fine.
Dobbiamo tornare al nostro presente, cercarne la soluzione, fuggire l’idolatria dei bei tempi andati e non più replicabili, la terribile vecchiaia prematura che ha colpito quelle generazioni che si sono ripiegate troppo in fretta su quanto fatto senza pensare oltre, credendo davvero che la storia finisse così, senza tragedia, in modo innocuo. Il presente ci richiama a sé e non possiamo lasciarlo correre liberamente, disinteressandocene. Siamo chiamati a lasciare traccia, a prendere posizione, a occuparci di guerre sovranazionali e intestine, a rispondere, come dice il poeta, del selvaggio dolore di essere uomini. No, non moriremo adolescenti. Il risveglio è inevitabile.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)