“LA POESIA NON È MAI UN PUNTO ESCLAMATIVO, MA DARE ALL’IRRISOLTO IL BACIO DI UNA NUOVA LUCE”: INTERVISTA A MAURO LIGGI, POETA (di Matteo Fais)
Una delle cose più difficili nell’analizzare l’opera di un poeta sta certamente nel rintracciarne la radice profonda, l’essenza frammentata in diverse liriche e versi. Tanto più che, salvo rari casi, in questo allargarsi della vocazione alla rima presso il grande pubblico, sovente la poesia è d’occasione, nasce cioè da contingenze personali che rimandano al vissuto di ognuno, senza necessariamente presentare una stringente coerenza tematica e di stile.
Volendo ricercare un nucleo profondo nella produzione di Mauro Liggi, e in particolare nel suo Alla terra i miei occhi (Internolibri), si potrebbe indicare la volontà di trovare una via per abitare la conflittuale dialettica esistenziale del nostro essere nel mondo. Il dolore, la morte, l’amore vengono accolti nel loro essere ospiti inquietanti con cui famigliarizzare, fantasmi di cui assumere l’onore della presenza. Se non vi è fuga da essi, bisogna imparare a condividere la tavola con loro, a pensare che anche la nostra solitudine è abitata.
Dunque un sì alla vita, indubbiamente, che non conosce limite temporale e spaziale, ontologico (“Nel cuscino dove ti ho chiuso gli occhi/ ora mi guardano spalancati/ quelli di un mistero che mi sovrasta/ mi schiaccia, urlante:/ dopo la morte, l’amore per la vita”). E, se un confine risulta invalicabile, l’attimo è comunque immenso (“Non promettere amore/ amarsi è accadere, ora/ mai declinare al futuro”). Accettare, accettare tutto, soprattutto il mistero (“indichi il cielo/ il dito già blu/ perché sai/ quello che anche io so/ […] muto è il grazie/ prima del viaggio”), perché la vita va oltre la violenza della razionalità, è “solo vita/ non un processo”.
Proprio questa interessante prospettiva di una poesia che cerca di fare i conti con l’esistere dell’uomo, sempre sospeso tra il suo essere stato e il suo farsi, senza indulgere per forza nel negativo, è stato motivo per interrogare l’autore in merito alle ragioni della sua scelta artistica.
Mauro, quando scrivi una poesia, ti capita mai di chiederti se, questo nostro intrecciare parole intorno ai molteplici dolori e ai rari piaceri dell’esistenza, abbia in qualche modo una sua importanza civile? Perché ci diciamo e sentiamo di non poterne fare a meno? Il mondo, a tuo avviso, ha bisogno dei nostri versi, in qualche imperscrutabile modo, per farsi più umano?
Sento molto la responsabilità di ciò che scrivo. Come diceva Cioran: “Non bisogna costringersi ad un’opera, bisogna solo dire qualcosa che si possa bisbigliare all’orecchio di un ubriaco o di un morente”. Io credo molto nella potenza della parola e della di quella poetica in particolare. In questo caso il termine civile lo declinerei nel creare una comunità che fa del vero, dell’essere fino in fondo sé stessi, nella libertà dei propri stati d’animo, persino nel fare compagnia. Scriveva la compianta Patrizia Cavalli: “Esseri testimoni di se stessi/ sempre in propria compagnia/ mai lasciati soli in leggerezza/ doversi ascoltare sempre/ in ogni avvenimento fisico chimico/ mentale, è questa la grande prova/l’espiazione, è questo il male”. Basterebbe solo esserci nella vita di una singola persona, con il mio libro, non farla sentire sola nelle sue angosce e nelle sue gioie, perché sia valsa la pena averlo scritto.
Si percepisce dalla raccolta – direi distintamente – la tua consuetudine con le corsie ospedaliere e, più in generale, con la dimensione della sofferenza fisica e del trapasso. Dimmi, avendo visto tante persone, famigliari ed estranee, andarsene, ti è mai capitato di scorgere nella sofferenza un’inedita possibilità che coinvolgesse la tua attività di poeta o, meglio ancora, hai mai pensato che, di fronte alla fine, la poesia fosse l’ultima salvezza?
Concepisco il mio lavoro come un rapporto tra persone. Non ho davanti malattie ma esseri umani con le loro relazioni, la loro vita, le loro paure e speranze. Questo, ovviamente, in maniera inconscia influisce sul mio scrivere. L’ospedale rende tutti uguali: non esiste ricco o povero, non contano i titoli di studio, le idee politiche, i ruoli raggiunti. Ti mette di fronte all’essenziale di ognuno. “Il dolore è un affidabile criterio di verità, uno strumento di discriminazione dell’autentico e dell’inautentico nella manifestazione del vivente”, per dirla con Chul Han. Non credo che la poesia salvi, citando Fortini: “La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.” In quello spazio in cui nulla è sicuro, però, c’è un luogo in cui il verso si fa corpo, presenza, persino – spero – sollievo. Chi lo abita attraverso le mie poesie, o con la poesia in generale, può trovare una boa quando il mare è in tempesta.
Nella prefazione, Anna Segre parla del tuo “rispetto quasi religioso davanti ai due misteri: Eros e Tanathos” e di una “carnalità dell’eros […] al limite col dolore”. Io vi scorgo anche una profonda volontà di venire a transazione con l’altro, di trovarvi un patto nella vicinanza, un terreno di serena convivenza e un tentativo di andare oltre la dimensione della lotta nel quotidiano (“Mi rifugio in quei due spazzolini vicini/ nella mia maglietta che indossi/ in quella valigia dove tutto si mischia/ profumi colori gonne e pantaloni/ semplicemente noi/ che viaggiamo con un unico biglietto”). Tu ti senti più un poeta del conflitto amoroso o il cantore della possibilità di una nuova empatia?
Credo molto che l’empatia sia la grande assente di questi tempi. “Davanti alla dismisura delle cose cerco di provvedere, scendo nel loro baratro. Ogni volta riemergo…” scrive una grande poetessa della mia Sardegna, Antonella Anedda. Ecco, io intanto scendo nel mio baratro e vivo come mio quello degli altri. Abbiamo perso la capacità di partecipare emotivamente alle gioie e ai dolori di chi ci circonda, ce ne teniamo alla larga, perché abbiamo paura di specchiarci nelle nostre gioie e nei nostri dolori. Magari li affidiamo ai social, all’impersonalità, all’assenza del reale. Quindi la risposta alla tua domanda è sì, l’empatia credo che, alla fine, sia uno dei messaggi più importanti del mio scrivere, nella mia pochezza.
“Eredito la mia infanzia/ lascio andare la mano/ dell’ultimo girotondo,/ voi giù per terra/ io l’unico rimasto in piedi./ Lascio andare la cima/ del cordone ombelicale/ mi affido a ciò che sono/ voi liberi/ io evaso”: mi pare che la tua lirica si muova spesso nel solco del ricordo, per tirare le somme e ricostruire l’uomo che si trova, alla fine del passato, nel presente. In tal senso vorrei chiederti se il verso è anche terapia, fare i conti con una materia che ancora brucia, dal tuo punto di vista, o se entro questo si possa trattare solo di sentimenti ormai risolti e assimilati?
Lo scrivere, quando è sincero, autentico, ti mette di fronte anche ai tuoi limiti. Non ho sentimenti risolti, vivo costantemente nel dubbio, che è gravoso ma al tempo stesso stimolante, non ho lezioni da dare. La poesia non è mai un punto esclamativo, ma ti aiuta a oggettivare le cose. Il foglio scritto su cui poi lavorare per sottrazione, modificare un termine, insomma quel lavoro di cesello che tutti facciamo quando scriviamo in versi, crea una distanza fisica in cui l’irrisolto è baciato da una nuova luce, visto da una prospettiva diversa. Il ricordo e l’infanzia sono una costante della mia poesia. Mi ha sempre colpito il verso fulminante di Caproni “Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai”. Questa è per me l’infanzia, un luogo sereno dove ricordo e vissuto, realtà e fantasia, si mischiano e che probabilmente è un’illusione. Ma alla fine cos’è la vita se non un’illusione continua, un partire, una fuga, un non essere ininterrotto?
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)