Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

PURTROPPO, È PIENO DI UOMINI E DONNE CHE PENSANO COME FILIPPO TURETTA (di Matteo Fais)

Quanto dichiarato da Filippo Turetta, in merito all’assassinio di Giulia Cecchettin, fa male, ma non stupisce. La concezione dell’amore diffusa presso le masse, spiace dirlo, ma è piena di errate convinzioni. Entro queste, fin troppi sono stati cresciuti ed educati. Ovviamente, e con buona pace delle femministe, non è questione di patriarcato, prova ne sia che tale perversa visione anima molte donne.

Se si vuole, per quanto la cosa faccia sorridere a pensarci, nella storia dell’Occidente, tutto parte dal mito dell’androgino in Platone che, in chiave popolare, diviene l’idea della coppia intesa come due parti dello stesso insieme da riunire a ogni costo, da cui deriva l’espressione “La mia dolce metà”.

Già qui emerge una posizione che, a fronte del romanticismo di cui risulta circonfusa, presenta in fin dei conti dei tratti profondamente inquietanti, come per esempio il pensiero che uomini e donne siano nati per una vita simbiotica e che il singolo non esista se non come parte di una struttura più ampia. Non è un caso che quella carogna del filosofo greco, sulle cui teorie volgarizzate è fondata vasta parte della nostra educazione sentimentale, abbia anche concepito il primo progetto di Stato chiuso e totalitario. L’odio per l’individualità conduce sempre inevitabilmente alla follia di regime.

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È abbastanza ovvio che se si dipinge la relazione come l’unione fondamentale, quella voluta in cielo, il rifondersi di due entità che solo incidentalmente si sono trovate divise, l’amante si sente in diritto di accampare pretese sulla libertà dell’amato. Separare ciò che deve essere unito suona effettivamente come una bestemmia, un abominio contro natura. Il problema è che non esiste nessuna unione voluta in cielo, nessuno è parte di un insieme più ampio che lo contempla.

Venendo al punto, l’amore è sempre e non può essere altro che l’unione di due solitudini – che tali debbono restare. Quando si è in relazione ci si accompagna all’altro, sulla base della decisione – sempre revocabile – di ogni membro coinvolto, non si diviene parte di un nuovo essere che si genera da una somma.

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Inutile anche precisare, poiché va da sé, che nell’unirsi non ci si trasforma per contratto in proprietà dell’altro. Il famoso “Sei mia (o mio)” va bene unicamente per accendere la carica erotica tra gli amanti, ma non si traduce nel possesso materiale sul corpo e la volontà altrui. L’altro è mio solo nel senso che sceglie volontariamente di darsi a me, di mettersi nelle mie mani, anche nell’atto più estremo, fidandosi di poter riprendere in qualsiasi momento il controllo della propria persona.

Filippo Turetta non sopportava l’idea che Giulia Cecchettin potesse fare a meno di lui, che volesse vivere lasciandoselo alle spalle. Anche questo non stupisce: difficilmente la gente viene educata a pensare all’altro in termini di potenziale negatività. L’inferno sono gli altri, tra i tanti motivi, perché chiunque rappresenta anche la possibilità del no: l’amico che si chiama, proponendo un’uscita, ricevendo come risposta un “sono stanco”; la ragazza a cui si fa presente la propria attrazione, per sentirsi dire che ci trova repellenti. Ciò sta alla base della libertà altrui e bisogna imparare ad accettarlo. Certamente tale aspetto dell’alterità è motivo di angoscia, ma cionondimeno è ciò che assumiamo quando abbiamo a che fare con un soggetto, l’eventualità del rifiuto.

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Del resto la cosa più bella dell’avere un qualsivoglia tipo di rapporto con chiunque è l’essere scelti, il fatto che deliberatamente la persona opti per noi invece che per qualcun altro o per la semplice possibilità della solitudine. È per questo che il gesto di Turetta è, oltre che scellerato a prescindere, patetico e disperato, tipico di chi non ha saputo venire a patti con l’esistenza: un rifiuto in amore è come la morte, una datità inaggirabile. Si potrebbe pure pensare di “fargliela pagare”, come si suol dire, alla persona che ci respinge, ma ciò non rovescia la sconfitta subita. Che io uccida, violenti, sequestri e incateni, la donna che mi ha respinto, il responso della sua libertà nei mie confronti resta il medesimo: lei non mi vuole, non mi desidera, non mi ama. Nessun pugnale potrà mai cancellare questo terribile dato di fatto. Sopprimere la libertà che ha emesso tale sentenza, cioè la persona che mi rifiuta, non muterà in alcun modo la mia condizione di respinto.

Naturalmente, è lecito soffrire per le decisioni che le persone prendono nei nostri confronti – ci mancherebbe altro! –, ma questo strazio non può divenire motivo per avanzare pretese e meno che mai per usare le maniere forti. Nessuno ci appartiene e noi non apparteniamo a nessuno. Un altro essere umano può decidere di donarsi a noi e possiamo amarlo, ma senza mai pensarlo come possesso, accettando di vivere in questa costante insicurezza carica di angoscia – in amore, non esistono certezze. L’alternativa è fare come Turetta, cioè dimostrarsi immaturi e senza onore. Se proprio dovete scegliere meglio imitare Cesare Pavese, che da uomo ha vissuto e, sempre da uomo, ha scelto di scendere nel gorgo muto.

Matteo Fais

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L’AUTORE

MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)

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