RITRATTI MORBOSI – MAX HARDCORE, L’ATTORE ESTREMO RACCONTATO DA DAVID FOSTER WALLACE (di Matteo Fais)
“Il buon vecchio Max Hardcore, per esempio, è uno psicopatico totale – fa parte del suo personaggio Gonzo sullo schermo – ma lo è pure il vero Max/Paul Steiner”, così dice di lui lo scrittore suicida David Foster Wallace, nell’articolo Il figlio grosso e rosso contenuto in Considera l’aragosta (E altri saggi) (Einaudi). Ciò che si sottolinea è la vicinanza tra l’uomo e la rappresentazione di sé che ha portato in scena per una vita, alla stregua di un autore che come genere adotti quello dell’autofiction, conferendo ai suoi romanzi un superiore senso di autenticità. Evidentemente affascinato tanto quanto simpaticamente disgustato, osserva questo controverso personaggio e lo intervista, lo ritrae e decostruisce nel suo costante mettersi in mostra in tutta la sua oscenità.
Ma forse, per dipingere adeguatamente questo folle figuro dell’ancora più pazzesco mondo libero a stelle e a strisce ci sarebbe voluto il supporto visionario, poetico e teoretico di un filosofo, magari il Jean Baudrillard di America e Della seduzione.
Difficile dire chi sia stato quell’uomo così immediatamente identificabile nel suo essere totalmente fuoriposto, come un cowboy nella metropoli, dato quel suo cappello a tratti buffo che lui ha comunque finito per indossare arrivando a sembrare addirittura credibile. Per alcuni era il campione del free speech, per quanto abbia dichiarato di non aver voluto fare altro che perseguire certi lubrichi desideri – ma, del resto, i propri principi non si affermano semplicemente con gli atti?!
Max Hardcore era certo un soggetto profondamente disturbato, uno psicopatico, come lo definisce Wallace, alla Ted Bundy, ma tanto intelligente da non finire sulla sedia elettrica e riuscire a trasformare la sua pericolosa e brutale mania in un business estremamente redditizio. Perfetto esempio di adattamento, ha trovato la via nella legalità per essere un pericolo pubblico.
Se non avete stomaco e, soprattutto, se entro questo vi è qualcosa che state digerendo, il consiglio è di non guardare uno dei suoi film a luci rosse. Sono disgustosi, vomitevoli, nel senso di pieni di ragazze che rimettono, sputano, si ritrovano grondanti di saliva e piscio. Non si può vedere uno dei suoi prodotti cinematografici per godere, se si è sani di mente. Neppure andrebbero bene, malgrado la violenza, per sostituire un horror, considerato che la sospensione dell’incredulità è impossibile. Lo dice lui stesso di non gradire attrici collaborative: significherebbe non averle spremute abbastanza, non essere riuscito a condurle al “punto di rottura”. Al contrario, desidera contemplarle andare in pezzi e piangere. Il dolore è vero e Max ha un unico obiettivo, catturarlo con la telecamera.
Spesso accusato di avere fantasie da pedofilo, non si è certo difeso dalla cosa saltando sulla sedia e indignandosi, bensì dicendo che gli uomini desiderano le donne più giovani, in quanto queste sarebbero più fertili, per quanto il mondo civilizzato abbia reso la pratica illegale. Ciò che sta iscritto nel nostro dna, insomma, sarà pure immorale, ma tant’è. “Questo è un altro dei marchi di fabbrica di Max: l’infantilizzazione delle donne come contrasto drammatico al suo personaggio, che è sempre quello di una specie di zio o patrigno depravato”, dice nel medesimo articolo Wallace. Insomma, il grande rimosso o taciuto del desiderio – anche perché giustamente considerato una degenerazione – lui l’ha portato in scena, gli ha dato carne e sangue, oltre a tutta la serie possibile e immaginabile di liquami organici.
Le sue ragazze fanno accapponare la pelle, vestite come scolarette all’ultimo giorno di scuola media, proprio quando giocano a fare le donne fatte e finite, con un eccesso di rossetto, ma cadono immancabilmente preda di questo grosso signore dallo sguardo lascivo, che non fa mistero delle sue voglie turpi e laide.
La cosa più straniante in questi filmati – data anche da una fotografia che tende al documentaristico finanche nella saturazione della pellicola – sta nel fatto che Max sembra voler dimostrare fin dove può spingersi una giovane, specie se è in gioco del denaro. Non è un caso che in un’intervista racconti di come abbia risolto il caso di una che l’aveva denunciato, per come figurava in un suo filmato, rimpinguandole le tasche con un bell’assegno.
In questa stramba forma di vendetta maschile (“male revenge), come l’hanno definita alcuni giornalisti, l’attore e regista sembra proprio voler rappresentare in modo grafico tutto ciò che una donna può mandare giù – è proprio il caso di dirlo – in cambio di biglietti verdi, dollari, senza alcun rispetto per sé stessa. Lui per primo, in un documentario, quando non sapeva di essere registrato, ha detto di considerare le attrici che hanno lavorato con lui “pupazzi di carne”, fondamentalmente acquistabili, per quanto ad alcune si sia legato in vita e a una pare abbia addirittura fornito supporto economico nei momenti di crisi – non vi stupisca che un uomo possa avere in sé tendenze fondamentalmente contrastanti e inconciliabili.
Altro aspetto che lascia esterrefatti è che, in uno strano modo, Max possedeva una sua filosofia e pure un’estetica, per quanto immonda. “Nella vita di tutti i giorni, non ti capiterà di incontrare una ragazza di dodici anni e fartela in un cesso lurido, al parco. Ma può accadere grazie alla magia del cinema!”. Quell’inutile figlio di buona donna aveva, insomma, ben compreso che le persone rispettabili hanno bisogno di trovare sfogo alle proprie fantasie più inammissibili e perverse – che, grazie al cielo, non vorrebbero mai materialmente realizzare – nella forma della proiezione, lasciando che le concretizzi qualcun altro, magari uno scarto sociale, un essere abominevole da guardare al sicuro, sapendo che non si ha niente a che spartire con lui. Max Hardcore è stato, per certi versi, un Marchese De Sade americano, felicemente privo di buongusto.
Nel dare una forma iconica alla degradazione dell’essere umano femminile, egli ha inseguito una disciplina, curando immensamente la parte tecnica – non per niente, iniziò come fotografo. Anche tutti gli attrezzi medici utilizzati durante le riprese, fanno trasparire il suo intento di far vedere e portare a galla la materia su cui si fonda il nobile sentimento dell’amore e la sua declinazione carnale nel desiderio.
Certo qualcuno dirà che il suo era solo sadismo e oscenità, eppure palesemente c’era qualcosa di più. Max Hardcore è stato forse l’ultimo distruttore di ogni valore occidentale, il propugnatore di un nichilismo gaio, il cantore della gioia infernale nella decadenza, quella che i conservatori vorrebbero negare dicendo che l’uomo del nostro tempo sarebbe unicamente preda di angoscia e sofferenza. La stessa idea di mostrare fin dove possa spingersi una donna che potenzialmente potremmo amare, ovvero farsi pisciare in faccia da un vecchio squallido e bavoso, è in qualche modo una terribile rivelazione – esattamente quella che nessuno di noi vorrebbe avere sul passato della persona per cui prova dei sentimenti: gli atti che ha potuto compiere con i precedenti amori, stabili o di passaggio.
“Ciao, papà. Cosa pensi, adesso, della tua piccola principessa?”, fa dire a una sua attrice, mettendole in bocca le parole, mentre la sodomizza. Se si vuole, la sua è una versione estrema di antipetrarchismo morale: alla forma della donna angelicata, divina, salvifica, si contrappone questa figura terreste, dagli orifizi dilatati con strumenti ginecologici, che anche se piange lascia che il degrado la pervada e la annichilisca. La sua è una genealogia della figura femminile che la smonta e demolisce per rivelarne la vera natura. La massima da bar per cui “sono tutte puttane”, nella sua esecrabile opera, viene indagata anal-iticamente, con scientifico accanimento entomologico.
Interessante, peraltro, quanto da lui dichiarato in un’altra intervista, in cui confessava di non avere avuto più, una volta entrato nel settore, una vita sessuale al di fuori del set e di essersi ripreso ogni volta che l’ha fatto, anche quando non si trattava di lavoro. Come il Professor Brian O’Blivion, in Videodrome di Cronenberg, anch’egli sembra avvertire che il futuro sarà tutto ciò che può essere fissato su un qualche supporto, che la vita non esiste se non trova modo di venire registrata. Se ci pensate, Instagram, pur con tutti i limiti a prova di ban, si muove secondo lo stesso principio.
Davvero in quell’uomo, a tratti così lucido da incutere terrore, ha abitato una consapevolezza diversa del nostro tempo, la forma estrema della razionalità che coincide con la morte di ogni magia e mistero. Egli è stato il personaggio dostoevskiano par excellence, quello per cui, se Dio non esiste, tutto è permesso, soprattutto il mostrare che non siamo fatti a immagine e somiglianza di alcuna creatura celeste. Eccoci, sotto la sua lente, siamo carne e schifo, senza alcuna scusa né possibilità di redenzione.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni)