TESTI DA RISCOPRIRE – “CONTRO I POETI” DI GOMBROWICZ (di Matteo Fais)
Se avete avuto la sfortuna di partecipare a una grande manifestazione di arte poetica, magari una cosiddetta “due giorni” – non parliamo della “tre giorni” -, certamente avrete un’idea di cosa voglia dire tornare a casa con due coglioni come una portaerei. Cinquanta, tra giovani e attempati, che ti frullano le palle, per ore, con i loro scenari bucolici incontaminati e magari abitano a Milano a un passo dal Pirellone. E vai di uccellini, laghi, mare, campi di grano per l’eternità.
E, poi, questi poeti sono tutti persone dalle emozioni sublimi, alte, altisonanti, allitteranti, metaforicamente assimilabili solo al sole e la luna, in una parola poetiche. Per loro l’Amore è ancora quello con la lettera maiuscola iniziale, che “viene nel bel viso di costei”, perché mica si possono spingere fino a scrivere di esserci venuti materialmente sul bel volto di lei – rivelando che quella, sì, è davvero una sensazione sublime. Per loro la donna non è carne e sangue, tette e culo, umori e stronzaggine – le femmine si rispettano solo dicendo la più grande menzogna sul conto di queste, ovvero che sono estranee alla bassezza dei maschi. Loro sono poeti e frequentano unicamente Beatrice e Madonna Laura, mica quelle che ti controllano il cellulare, mentre sei a pisciare, e poi ti piantano un casino da far venire giù il palazzo.
L’Amore, la Natura, un mondo di vaccate e astrazioni, di parole in poetichese. Il loro versificare non è sentimentale, ma di più: esprime solo buoni sentimenti. Ogni termine è moralmente testato, pedagogicamente inappuntabile. Si amano tutte le donne vittime di violenza e dello sfrenato desiderio testosteronico del pianeta, ci si preoccupa per il clima, si esalta la parola che è sempre preziosa e salvifica – la possibilità di andare a capo a cazzo li ha sollevati dal fardello del dolore, non come dice Houellebecq, secondo cui “la scrittura è tutt’altro che un sollievo. La scrittura rievoca, precisa. Introduce un sospetto di coerenza, l’idea di un realismo”. Poco ma sicuro, se questo branco di senza palle entrasse in un hospice, o stesse sul campo di battaglia di Hemingway, si ritroverebbe senza parole, scoprirebbe che non c’è salvezza, solo l’agitarsi convulso di un corpo che vomita l’ultimo schifoso anelito di vita.
Se pensate che quanto detto fin qui sia iconoclastia di bassa lega, forse dovreste procurarvi, per ricredervi, il testo di Witold Gombrowicz, Contro i poeti (Theoria), oramai fuori catalogo da tempo immemorabile, che è possibile rintracciare solo a prezzi esorbitanti – giusto, pagatela sta dannata cultura, morti di fame che non siete altro!
“I versi non piacciono quasi a nessuno e il mondo della poesia versificata è un mondo fittizio e falsificato”, recitava, in una conferenza del 1947, quella carogna di un polacco emigrato in Argentina per sfuggire alla guerra. “Quando la poesia compare mescolata con altri elementi, più crudi, più prosaici […] avverto una forte emozione come qualsiasi mortale. Ciò che la mia natura difficilmente sopporta è quell’estratto farmaceutico e depurato di poesia, denominato ‘poesia pura’”.
Eccolo dunque il bersaglio, un linguaggio lirico che attinge unicamente a sé stesso di autore in autore, che ricicla i soliti argomenti e si tiene a debita distanza dalla contingenza brutale dell’esistenza. Se siete soliti leggere le nuove uscite, avrete notato che, almeno nell’ottanta per cento dei casi, è impossibile distinguere un poeta dall’altro: scrivono tutti nello stesso modo, parlano di un mondo che nessuno conosce, che esiste unicamente nella loro fantasia di animali da scrivania, un universo senza bollette e sigarette, cartelloni pubblicitari e siti porno.
“Perché non mi piace la poesia pura? Per le stesse ragioni per le quali non mi piace lo zucchero puro. Lo zucchero è fenomenale quando lo sciogliamo nel caffè ma nessuno si mangerebbe un piatto di zucchero: sarebbe troppo. È l’eccesso ciò che stanca nella poesia: eccesso di poesia, eccesso di parole poetiche”, scrive Gombrowicz, chiaro “come un lago senza fango, così limpido come un cielo d’estate sempre blu”, per dirla con Alex di Arancia Meccanica, e ci riesce proprio perché la questione è palese, persino a coloro che fanno di tutto per non ammetterla. Non è un caso che quasi mai si riesca a leggere un testo in versi in tempi brevi. Sarà che si è spesso in presenza di uno stucchevole sovraccarico e solo i matti ingeriscono un cucchiaino di zucchero dietro l’altro – certi autori sono effettivamente tanto scemi.
“Lo stile si disumanizza; il poeta non prende come punto di partenza la sensibilità dell’uomo comune ma quella di un altro poeta […] si crea un linguaggio inaccessibile, simile a un qualsiasi altro microlinguaggio tecnico […] Tutti loro diventano schiavi del proprio strumento, perché questa forma è oramai così rigida e precisa, sacra e consacrata, che cessa di essere un mezzo espressivo: possiamo definire il poeta professionista come una creatura che non può esprimere se stessa perché deve esprimere i versi”. Infatti questa gente non fa poesia, bensì la butta in poesia. Con il grosso dei rimatori nazionali non è possibile avere un versificare serio, autentico, perché quello spingere all’estremo, al poetico appunto, si risolve in parodia involontaria del lirico.
Incredibile peraltro che, in tempi pre-social, l’autore già metta in guardia da “l’isolamento sociale dei poeti”, quello che oggi chiameremmo il “chiudersi in una bolla” online, rappresentativa di niente, in cui “tutto si dilata, e persino i creatori mediocri riescono ad assumere dimensioni incommensurabili e, parimenti, i problemi più irrilevanti assumono dimensioni apocalittiche”. Ebbene sì, questi poeti dai sentimenti vertiginosi amano molto il chiacchiericcio e il battibecco da circolo di taglio e cucito, conducono battaglie di civiltà contro un’antologia perché gli autori hanno avuto l’ardire di definirla “universale” – “assurdo, hanno escluso quel poeta che si trova persino nelle antologie scolastiche” – e Dio guardi chi ha ingenuamente tentato una mappatura poetica – “la poesia è una cosa seria, io non sono qui per scherzare”. Pensate voi che livelli di sfiga si possono raggiungere.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).