PURE YASMINA REZA SI È VOTATA AL POLITICAMENTE CORRETTO (di Matteo Fais)
Nella vita tutti possono risultare deludenti, anche i più promettenti. Gli scrittori e gli artisti, in generale, non fanno eccezione, persino quelli che sono partiti con i migliori intenti, con la volontà di scardinare a mezzo della creazione le logiche di potere o smontare la narrativa dominante, dire quello che il buon costume della propria epoca vorrebbe si tacesse.
Lo spirito del tempo, intendendo con esso non una forza oscura che muoverebbe il mondo, ma semplicemente il clima culturale diffuso, può avere il suo nefasto influsso. Cedere alla vanità di piacere compiacendo i gusti del pubblico è una tentazione potentissima – aspetto di ogni individuo che gli artisti conoscono molto bene.
A quanto pare anche Yasmina Reza, romanziera e, soprattutto, superlativa autrice teatrale, pare sia cascata a piedi uniti nella trappola della correttezza a tutti i costi. Proprio lei che, con Il Dio del massacro, ci aveva sbattuto in faccia il falso avanzamento morale dell’umanità, la quale, malgrado millenni di educazione e riflessione etica, resta centrata su egoismo, indifferenza e una malcelata tendenza alla sopraffazione, sotto la scorza delle buone maniere tanto sbandierate.
Basti leggere la sua ultima fatica teatrale, James Brown si metteva i bigodini (Adelphi). La trama riprende una storia già proposta nel romanzo Felici i felici, quella di Jabob Hutner e dei suoi genitori, Lionel e Pascaline, alle prese con un figlio pazzo che si crede la cantante Céline Dion. In preda alla disperazione, questi decidono di farlo internare in una struttura psichiatrica privata, circondata da un grande e lussureggiante parco.
La psichiatra del centro è convinta che i pazienti vadano assecondati (“I nostri pazienti credono che questa sia una beauty farm. Pertanto hanno bisogno di sentirsi al sicuro, cioè accettati per come sono, senza riserve e senza secondi fini”). Questa, come la tipica macchietta popolare del terapeuta, che viene dipinto più matto dei matti, fa discorsi strani che vengono spacciati per chissà quali profondità metafisiche, come quando, con Lionel, si ritrova a parlare di come si stia al volante: “Io non vado piano, signor Hutner. Il punto non è la lentezza. Il punto è un altro. Io non freno. Capisce? Guido in modo da non dover frenare. È una questione che non ha niente a che vedere con la guida bensì con un’estetica generale. Frenare significa capitolare. Quando un semaforo diventa rosso io alzo il piede, abbandono il motore a se stesso perché collassi lentamente. Precisione, senso dell’energia […] Io non freno. È come la vela, si diventa tutt’uno con gli elementi, si trova un equilibrio, si sfruttano le correnti, si plana”. Una curiosa lezione di vita? Fuor di linguaggio critico, tutte queste sembrano più che altro parole in libertà, per non dire stronzate colossali.
L’unico aspetto positivo dell’opera è l’abitudine della Reza a scandagliare la media borghesia – per quanto, oramai, da parte sua, tale approccio risulti abusato, come la descrizione dal punto di vista del borghese decadente in Houellebecq. Effettivamente quel momento non manca e conserva, per il fruitore, il consueto piacere sadico e un po’ guardone nell’osservare le debolezza altrui dal buco della serratura (“Tu mi fai passare per un uomo solido ma sai benissimo che non è affatto così […]Hai sposato un uomo impietrito che non ha alcuna disinvoltura sociale, che non ha mai fatto il minimo progresso. Ricordati la piscina di Ouigor, in cui alla fine non siamo entrati perché io non sono riuscito a chiedere delle sdraio […]Un tizio che non sa come farsi dare una semplice sdraio. Che non sa come rivolgersi al cassiere […]Lo sai che dal barbiere sto tutto il tempo a programmare e deprogrammare le mance nella mia testa? Non faccio altro che ringraziare, trovo il taglio sempre perfetto anche se faccio spavento. Tu spiegami perché dico grazie mille è perfetto quando quello mi ha sbagliato il taglio!”).
Tutto giusto e, per l’uomo medio – che tanto non leggerà mai la Reza –, neanche così scontato. Ben vengano anche le considerazioni quali “Non c’è peggior raggiro della natura”. Resta il fatto che il discorso intorno a Jacob che si crede Céline Dion, quindi anche una donna, come quello di Philippe, l’altro internato con cui ha stretto amicizia, che si spaccia per nero pur essendo un bianco, è un colossale pompino ideologico alla propaganda woke.
Naturalmente, tale prospettiva è perfettamente in linea con una certa visione molto francese, oramai classica – si pensi a Michel Foucault e al suo Storia della follia nell’età classica –, secondo cui il pazzo sarebbe semplicemente il soggetto che il sistema non riesce a integrare e, dunque, marginalizza rinchiudendolo entro strutture in cui non possa nuocere alla società mentre, in contesti passati, il visionario occupava addirittura ruoli di spicco, come quello dello sciamano.
Cazzate! Siamo tutti d’accordo che l’identità è, almeno in un certo senso, una menzogna, un costrutto sociale, un mero conformarsi a modelli già dati, uno sforzarsi di essere. Cionondimeno, un po’ di sano e spicciolo buon senso non è necessariamente da bandire e non si può che solidarizzare con Lionel quando sostiene “Questo individuo […] Chi è? Io voglio mio figlio. Voglio Jacob […] Ma perché devi essere qualcun altro? Sei Jacob Hutner. Come io, tuo padre, sono Lionel Hutner. E questo mi basta per stare in piedi. La gente mi chiama Lionel, non ho bisogno di sapere chi sono”.
Se certo è sbagliato pensare di potersi adagiare meramente nel proprio ruolo sociale, evitando così di indagare e conoscere sé stessi, è anche doveroso rammentare che una soggettività ha bisogno di un’altra per riconoscersi, che l’individuo si costruisce nell’intersoggettività, e non nella chiusa follia della propria mente avulsa da qualsiasi contesto interumano. Insomma, se l’identità è sempre una forma di blanda violenza su sé stessi, la soluzione non è lasciare piena libertà a chiunque di identificarsi a proprio piacimento, in totale arbitrio, con una cantante famosa, un nero, o una donna. Se la verità non esiste, grazie al cielo, come oggetto trascendentale del pensiero, essa è il frutto di una decisione condivisa – ovviamente, la tolleranza serve a mitigare la possibilità che la soluzione trovata divenga brutalità contro chi non si conforma.
Tutto ciò valga ancora di più sapendo che è ben noto cosa accade nella dittatura dell’individuo assoluto: ognuno si sente in diritto di denunciare il primo che gli si rivolge con il pronome inappropriato e altre idiozie simili. La critica sociale sottesa al testo dell’autrice conduce inevitabilmente a ciò, cioè al farneticare dei woke e di tutta questa serie di soggetti fuori di senno convinti che il mondo non esista se non come proiezione del singolo, da imporre manu militari alla maggioranza. Tale posizione è da respingere senza appello, persino se proviene da un genio.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).