VALERIA FONTE, “VITTIME MAI”: PIÙ CHE CRITICARE, BISOGNEREBBE AIUTARE QUESTA RAGAZZA (di Matteo Fais e Melania Acerbi)
Certi autori riescono a elaborare i traumi che l’esistenza inevitabilmente porta con sé, a mutare per alchimia l’annichilimento in bellezza, il dolore in resurrezione – se non altro estetica. Per farlo, devono accettare la sussistenza del male e trovare la via che, attraverso la creazione e il pensiero, conduce al riscatto.
Non sempre ciò avviene. Delle volte qualcosa si inceppa nel meccanismo – capita nella vita come nell’arte. Il dolore si sclerotizza in un grumo cancerogeno e, successivamente, per rendersi socialmente accettabile, viene proposto dal soggetto sotto le mentite spoglie di una bizzarra ideologia.
Il caso di Valeria Fonte è paradigmatico. Sarebbe fin troppo facile, per così dire, sparare su di lei, tirare fuori tutte le argomentazioni possibili e immaginabili contro la misandria. In verità, ciò che una persona sana di mente prova leggendo il suo Vittime mai (DeAgostini), recentemente uscito, è solo un’immensa pietà verso una creatura che, per quanto si avvalga della forma romanzo per meglio nascondersi dietro a un dito, lascia trasparire tutta la propria incapacità di stare al mondo e avere un rapporto sano con la controparte maschile.
La trama, è presto detto, riguarda una ragazza, Valerie, siciliana, vittima di stupro e condivisione, ovviamente non consensuale, di un video dell’atto. Dopo varie peripezie, tra cui una permanenza all’ospedale psichiatrico, l’eroina, con la complicità di una vecchia amica d’infanzia – a sua volta vittima della medesima abominevole pratica – e due fuggitive conosciute nella clinica, finisce per farsi giustizia autonomamente. Che vi siano molteplici similarità con l’esperienza reale della scrittrice è abbastanza chiaro a chiunque la segua da tempo e, del resto, è lei stessa ad ammetterlo (https://www.vanityfair.it/article/valeria-fonte-nuovo-romanzo). Non ci vuole Freud, né Jung a dirla tutta, per comprendere come gli omicidi di uomini, perpetrati nell’ultima parte del libro, siano una forma sublimata della rabbia covata dalla stessa scrittrice – per quanto quel “Ci sono delle cose che ho fatto e non confesserò mai”, contenuto nella prefazione, risulti vagamente inquietante.
Il romanzo, stilisticamente discutibile e palesemente a tesi (“Gli uomini raramente sono così consapevoli. Sono più stupidi delle donne. Non c’entra la biologia. Non è che il loro quoziente intellettivo sia inferiore: solo il loro genere”), è abbastanza prevedibile, un semplice mezzo per sciorinare le idee già ripetute in mille conferenze e interviste. L’unico motivo per cui può risultare di grande interesse è perché fornisce una testimonianza psicologicamente rilevante di ciò che alberga nella mente di una femminista al giorno d’oggi e, ancor di più, perché esemplifica un tipo di reazione possibile alla violenza – in questo caso, dopo una fase autodistruttiva, la volontà di vendetta e, quel che è più grave, l’ingiustificata riduzione di un intero genere alla mostruosità dei carnefici.
Se è pur certo, come suggerisce quella simpatica carogna reazionaria di Balzac, che “è veramente difficile convincere il pubblico che uno scrittore può concepire il crimine senza essere un criminale”, è altresì facile assumere come il concentrato di paranoia e negatività che anima la protagonista della storia sia in buona misura una diretta emanazione dei sentimenti della cara Dottoressa Fonte. Già da quando la prima uccide, in età infantile ma consapevolmente, un coniglio, per poi seppellirlo – si spera vivamente che non ci sia niente di autobiografico in questa parte –, si arguisce di essere al cospetto di una personalità se non altro problematica. Non è un caso che comportamenti simili, durante la giovinezza, siano stati caratteristici di tutti i serial killer – si veda, per esempio, un qualsiasi documentario su Jeffrey Dahmer.
Ogni vicenda, anche dei primi anni di vita, assume il tono tipico con cui il soggetto mentalmente disturbato racconta a sé stesso il passato per giustificare la propria visione distorta delle cose. Persino l’innocuo episodio di un bambino che la spia mentre urina, diviene exemplum della tendenza alla prevaricazione maschile (“E io, assetata di risposte, volevo capire perché lui si fosse preso l’autorità di vedermi pisciare. Ricordo di averlo guardato negli occhi, e lui ha chinato la testa quasi subito. Si è girato a metà, guardandomi con l’angolo dell’occhio, come uno che è stato scoperto a commettere un grave misfatto”).
Proseguendo, la situazione clinica della protagonista non migliora. Prima della violenza, lei è innamorata di uno dei suoi stupratori e vi si intrattiene ampiamente, convinta che, concedendosi a scapito della propria dignità, potrà attirare presso di sé il sentimento del ragazzo. Nelle parole dell’autrice: “Io ero la sborrata sulla faccia che ti fai in attesa di qualcosa di meglio. Ero la sabbia calda delle due del pomeriggio su cui corri velocemente perché scotta, mentre sei diretto al mare. Manco la guardi, pure se ci stai sopra. E tutte le volte che mi stava sopra infatti lui non mi guardava. Correva verso il suo orgasmo, che decretava l’abbandono del mio. Si rivestiva. Si allontanava. Non mi passava neppure un fazzoletto per liberarmi degli schizzi e io ero costretta a cercare qualcosa con cui ripulire i suoi spermatozoi morti dalla bocca, dalla guancia destra, dall’occhio sinistro. Poi, dopo qualche minuto, mentre mi lamentavo dell’occhio che ora è rosso e prude, mi chiedeva «Ti è piaciuto? Sei venuta?». Io glielo dicevo chiaramente: «Sì, mi è piaciuto. No, non sono venuta». «Ok.»”. È comprensibile che una, dopo simili esperienze, sviluppi una certa rabbia, almeno verso il soggetto in questione. Non è, però, indice di grande intelligenza lamentarsi, dopo che si sceglie volontariamente di farsi trattare a quel modo – ciò dicasi, a parti invertite, anche per gli uomini che si fanno soggiogare da una donna.
Davvero questo volume ha qualcosa di profondamente triste, tanto da far venire meno qualsiasi volontà di catarsi e agnizione. Tutto ciò che emerge è unicamente la mania di persecuzione (“Si è dimostrato che la violenza non risolve nulla […] ma chi è che ha il privilegio di dire queste stronzate? […] Altri uomini. Io mi sono fatta una teoria: a un certo punto gli uomini litigavano con altri uomini, a vicenda s’ammazzavano, litigavano per l’oro, per le terre, per il potere, e si sono accorti che questo li decimava. Allora, un giorno si sono riuniti attorno alla Tavola Rotonda del Genere Superiore e si sono detti: ma scusate, c’abbiamo le donne, perché non ammazzare loro e proteggerci fra noi?”) e un odio mortifero (“Per stuprare un uomo, devi smettere di temere di diventare come lui […] ti stai difendendo, non stai attaccando; e se un giorno ti andrà di attaccare, perdonati”; “Non sono gli uomini che non mi piacciono. È il modo in cui gli uomini sono uomini. Vorrei vederli disgregati. Mai più ricongiungibili i loro pezzi. Mai più ricongiungibili loro”; “Potessi odiare per sempre, io sarei per sempre felice, per sempre invincibile, per sempre pronta, per sempre temibile”). Pensare che un altro essere umano possa vivere portandosi dentro un simile fardello, può solo indurre al rammarico e alla compassione nei suoi confronti.
Anche perché, per quanto ben celato tra le righe, nel tentativo di volersi dimostrare forte e determinata, quel che traspare della protagonista è una fragilità totale, una personalità che si sente inesistente poiché non riconosciuta (“Perché nessuno ha a cuore il mio dolore? Vorrei un abbraccio amico, ma io non so chi chiamare, non ho persone che mi possano stringere”; “Appena finiamo, gli dico per la prima volta che provo un certo affetto smisurato, per lui, che le persone chiamerebbero ‘amore’ e che io con lui chiamerò ‘amore’, per farglielo capire, ma che in realtà è una cosa più grossa che sfiora il bisogno ossessivo di volerlo felice, salvato dalle intemperie del globo grazie alle mie mani non abbastanza grandi, ma che comunque possono garantire una cura e una dolcezza senza misura. Io volevo solo amare ed essere amata, ma con complicità. Avrei fatto di tutto per costruirla. Anche diventare un’altra. Mi sarei scuoiata viva se m’avesse detto che mi preferiva senza pelle, oltre che senza vestiti”). Difficile pensare a tali parole se non come a un disperato grido d’aiuto da parte di una persona che, per non cadere a pezzi al cospetto dell’umana solitudine, si attacca all’astio come all’ultima possibilità.
Manco a dirlo, peraltro, come sempre, la Fonte si rivela la versione rovesciata dei suoi nemici, i maschilisti. Nelle sue parole si indovina la stessa rabbia dettata dalla frustrazione del peggior forum incel, o delle frange più estremiste della redpill. Il “Tutti gli uomini sono stupratori” è l’altra faccia della medaglia del “Tutte le donne sono stronze puttane”. Come l’incel trentenne scrive su Facebook, nascosto dietro un account fake, augurando la morte per cancro a tutte le femmine, lei trova una misera soddisfazione vomitando che “un torto fatto a un uomo è sempre un torto giustificato, anche quando non sai il perché. Nel dubbio, se lo merita. Adesso, quando vedo un maschio, io lo penso colpevole fino a prova contraria”.
Tutto ciò, nell’un caso come nell’altro, è patetico, anzi fa proprio venire da piangere. Quanta vita sprecata in guerre che non hanno alcuna ragion d’essere! Altro che dire, come fa l’autrice, che “i traumi non definiscono niente”. I traumi impediscono di esistere serenamente, di aspirare all’amore e a una qualche forma di positività finché si è ancora in tempo.
Sul serio, questa volta, diversamente che con il precedente testo, Ne uccide più la lingua, passa anche la voglia di ridere e scherzarci su. Sarebbe come accanirsi su un indifeso, dimostrarsi della stessa risma degli stupratori di cui si racconta.
Matteo Fais e Melania Acerbi
Gli autori:
Matteo Fais
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MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).
Melania Acerbi:
Melania Acerbi nasce a Pistoia, il primo settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming).