BLACKOUT POETRY, OVVERO LA POESIA QUANDO NON SI HA PIÙ NIENTE DA DIRE (di Matteo Fais)
In un’epoca in cui non si vive sperando nel futuro, ma cercando di restare in piedi facendo leva sulle solide fondamenta del passato, sembra si cerchi ogni strategia per fare almeno qualcosa di decente, visto che la possibilità dell’eccellenza pare tramontata.
Invece di creare un gruppo che proponga nuova musica, si mette su l’ennesima cover band che replica perfettamente la performance della più famosa – addirittura meglio dell’originale in live. In luogo di un nuovo film, si presenta il suo remake in 4-8-6 mila K, o la versione restaurata.
I più smaliziati diranno che non vi è nulla di strano. In fondo, sarebbe stata decretata la morte della novità con l’avvento del postmoderno. Insomma, tutto è già stato inventato e si può unicamente rimaneggiare ciò che è: prendere la Gioconda e disegnarle i baffi, campionare un motivetto più o meno famoso e remixarlo in chiave dance, scrivere il seguito di un classico come Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi – cosa che, stando alle dichiarazioni dello stesso autore, sarebbe prossima a vedere la luce.
In verità, si tratta di idiozie. Ogni autore, a prescindere dall’ambito, è sempre stato un saccheggiatore dell’opera altrui. Ciò che distingue il genio dall’epigono è che il primo non fa il verso a chi l’ha preceduto, ma ricrea fino a rendere irriconoscibile, al punto che la traccia della copia sparisce nella produzione inedita. Il postmoderno, sovente, viene citato solo per giustificare la pigrizia e l’assenza di inventiva.
Anche questa singolare tendenza, risalente a qualche anno addietro e di cui dava notizia “Fanpage” giorni fa (https://www.fanpage.it/stile-e-trend/moda/spopola-la-blackout-poetry-lesperimento-creativo-che-da-nuova-vita-a-pagine-e-parole/), la blackout poetry, è un mero espediente, una trovata che lascia il tempo che trova, un simpatico giochino da fare al cesso, come appunto disegnare i baffi su un’opera d’arte figurativa che fa bella mostra di sé su una rivista.
Per chi non lo sapesse, la blackout poetry non consiste in niente di più che cercare di dare forma a una poesia, scegliendo le parole su una pagina qualunque, sia essa presa da un quotidiano o da un vecchio libro che cade a pezzi. Si cancellano i termini che non interessano – la maggior parte, di solito – o, se si preferisce, si sottolineano in prima istanza quelli che attirano la nostra attenzione.
Senza voler fare i conservatori della letteratura – bastano e avanzano quei disperati che lo sono a livello politico –, non si può confondere volontà espressiva e gioco fine a sé stesso. Fosse pure che il poeta sia più parlato che parlante, o ispirato dalle muse che dir si voglia, come sostengono certi metafisici dell’atto creativo, la parola viene senza essere cercata, come un fulmine a ciel sereno, a squarciare l’orizzonte del linguaggio abusato e quotidiano. Non la si cerca, si impone, dice sé stessa nel vuoto ma pesca nella pienezza senza fine della lingua che è sempre lì, a disposizione in tutta la sua estensione. Non si tratta certo di ciò che una pagina può ospitare. Anche una lirica di tre righe emerge autonomamente da quella massa infinita e in continua espansione che è la parola.
Non si crea con il già dato – non siamo in cucina, dove è considerata una grande abilità riuscire a riciclare gli avanzi. E, meglio ripeterlo, se ciò che era si ripresenta – cosa inevitabile, perché nessuno scrive partendo dal nulla – è solo in una forma trasfigurata, come i tratti del nonno possono in parte riapparire sul volto del nipote appena nato.
C’è poco da discutere, la poesia si fa con il sangue, non con i mattoncini della Lego creati industrialmente in Cina. È così dall’inizio dei tempi e così sempre sarà. Non c’è AI che tenga. Nessun algoritmo riuscirà mai a ripetere il mistero rappresentato da creature come Sylvia Plath o Emily Dickinson. Tutto il resto sono trastulli per ragazzine annoiate che potrebbero indistintamente postare una foto del culo, con annessa citazione bukowskiana, o creare un simpatica cretinata, da fotografare e mettere su Instagram, con un foglio preso dal giornale locale che il padre ha dimenticato in bagno.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).