MEDITAZIONI FILOSOFICHE – MARK FISHER E IL REALISMO CAPITALISTA (di Matteo Fais)
“Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo” (Mark Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero).
Naturalmente tutti i marxisti sono dei poveri idioti e riconoscere loro una qualche dignità come interlocutori sarebbe sbagliato, come aprire la porta di casa ai topi. Cionondimeno qualcuno tra loro merita di essere letto, perché vagamente più intelligente dei suoi compagni; poiché comunque fornisce alcune suggestioni che, seppure male interpretate dal pensatore in questione, possono risultare interessanti; e perché anche i fenomeni negativi meritano di essere passati al vaglio, almeno su base psichiatrica, per indagare come certi disturbi possano confondere il pensiero di un essere umano.
Tra i casi più interessanti di intellettuali marxisti (o post) degli ultimi anni e, per così dire, più giovani, c’è certamente il filosofo inglese Mark Fisher, morto suicida nel 2017. Dopo la scomparsa di tanti autori classici e, soprattutto, di troppi rimasti ancora imprigionati nel 900, tipo quella ex salma vivente di Toni Negri, perlomeno lui ha il merito di aver vissuto coscientemente la fine e l’inizio del nuovo millennio, di aver provato a confrontarsi con la postmodernità, di non essersi chiuso rispetto ai fenomeni contemporanei della cultura popolare – non si trovano molti pensatori che, per spiegare le proprie teorie, parlino della musica jungle e dei Nirvana, o divengano famosi partendo da un blog.
Egli è noto in particolare per il testo Realismo Capitalista (Nero), comparso in Italia nel 2009. La sua opera, considerato la morte in età non esattamente avanzata – 48 anni –, è decisamente vasta e sarebbe impossibile trattarla interamente in poche pagine. Bisognerà dunque concentrarsi unicamente sul suo libro più famoso e, sfortunatamente, appena su alcuni nuclei tematici. Per quanto meriti di essere approfondito, i primi 3-4 capitoli del pamphlet in questione bastano e avanzano per farsi un’idea della consueta idiozia che abita la mente di un intellettuale di Sinistra.
Fisher è fondamentalmente ossessionato dall’idea di un capitalismo che, dopo la caduta del Muro di Berlino, ha fatto credere di essere l’unica opzione possibile per il mondo del futuro (“è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”).
Insomma il TINA, o “There is no alternative”, di thatcheriana memoria proprio non gli va giù, perché ci avrebbe negato la possibilità di sognare che un altro mondo sia possibile, cosa che, a suo avviso, era ancora concepibile quando vi erano l’URSS e il cosiddetto Socialismo Reale.
Similmente, in compagnia dei Marx ed Engels del Manifesto, egli è persuaso che borghesia e capitalismo abbiano “spento le più celesti estasi del fervore religioso, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo filisteo, nelle fredde acque del calcolo egoistico” e, di conseguenza “Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine”. È sempre fantastico sentire dei materialisti parlare come dei mistici invasati e rivalutare lo spirito, quando ciò può tornare comodo per i propri biechi fini.
A quel punto, il pensatore inglese se la prende contro coloro i quali fanno notare come il cinismo del mondo capitalistico ci permetta “di proteggerci dai pericoli di qualsiasi ideale o credenza. L’atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo”.
Per lui è assurda la tesi immensamente realista avanzata dai partigiani della Società Aperta, secondo cui, se è vero che non viviamo nel migliore dei mondi possibili, esso è comunque meglio dell’inferno, dello stalinismo e del gulag, e che, se la democrazia liberale è piena di falle, risulta comunque superiore alla dittatura rossa.
Fisher, purtroppo per lui, come tutti i marxisti, è obnubilato dall’idea di un paradiso laico in terra e non si rende conto del difetto ontologico che caratterizza la vita nell’universo umano, per cui il meglio si pone come un’astratta idea irraggiungibile, mentre nella realtà esiste unicamente il meno peggio. Volgarmente, c’è un motivo per cui tutte le menti superiori al mondo, così come quelle più sfigate del resto, desiderano recarsi negli US e non a Cuba o in Corea del Nord, per quanto il primo sia tutt’altro che un Paese perfetto. Esattamente come esiste un motivo per cui le 2 nazione comuniste sono costrette a tenere militarmente serrati i confini – altrimenti si svuoterebbero nel giro di 15 minuti.
Al filosofo, peraltro, sfugge che il capitalismo, per come lo conosciamo, non è un dato di natura immodificabile, ma una costruzione fluida e immensamente mutabile. I suoi errori e imperfezioni possono essere corretti con la partecipazione popolare e democratica – un esempio semplice semplice: il green pass ha potuto essere applicato solo perché le masse non si sono ribellate a una tale imposizione sovietica.
Dunque, certo che nessuno nel mondo libero pensa a un’alternativa al mercato e alla libera discussione, perché tutte le soluzioni altre hanno dato prova nei secoli, e tutt’oggi, di essere i peggiori tra i fallimenti possibili per l’umanità. Cionondimeno il capitalismo può essere eternamente emendato, rivisto, corretto da un sano riformismo, assumere in sé istanze socialdemocratiche di tutela dei lavoratori e degli elementi al suo interno più deboli – sempre tenendo conto che neppure il paradiso soddisferà mai tutti, se non altro chi nutre la volontà e il piacere di essere dannato.
Ovviamente, Fisher non può essere ridotto a tali povere e veloci considerazioni che, per ovvi motivi, trascurano la profondità e il denso contenuto di certe sue meditazioni. È per esempio molto pregnante la riflessione sulla malattia mentale come prodotto di una condizione non esistenziale o personale, ma politica e sociale. Purtroppo, a ogni modo, egli soffre del problema di non riuscire a intendere che l’infelicità, come la noia e il disagio, di un soggetto nel mondo capitalista, con tutte le sue ripercussioni – si pensi all’uso degli psicofarmaci -, è sempre meglio di quella di un cinese internato nel campo di rieducazione, costretto per anni a proclamare i propri errori al grido di “Ho sbagliato, devo essere punito dal Partito”. Dunque, in un certo senso, lui aveva ragione: bisogna sempre immaginare un mondo migliore. Peccato solo che abbia saputo cogliere tanti aspetti negativi del proprio, senza mai fornire un’indicazione per rinnovarlo.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).