TRENT’ANNI SENZA CHARLES BUKOWSKI (di Matteo Fais)
La prima cosa da capire di Charles Bukowski è che non esiste solo Charles Bukowski, detto Buk, morto la bellezza di trent’anni fa, il 9 marzo del 1994. Insomma non bisogna trasformarlo in religione e fanatismo, come se, a parte lui, nessuno sapesse scrivere. Di autori grandiosi, specie in America, tra i morti e non solo, ce ne sono stati diversi. Philip Roth, per dire, ha spesso un suo perché, per quanto, persino in certi episodi della sua migliore produzione, come L’animale morente, la meni con il sesso in un modo vagamente troppo sofisticato e squisito, con il rischio di tramutare ogni pompino in una faccenda socio-culturale-antropologica. Che due coglioni!
Infatti, è proprio questo il punto: di quella canaglia di Bukowski ci piace il fatto che sia diretto, poco elucubrante, che scriva non come si sale sul ring, ma come si picchia in una rissa da strada.
Lui era così anche in poesia, o forse in particolare tra i versi. Basta leggere certi incipit di alcune famose liriche: “Una poesia è una città piena di strade e tombini/ piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi,/ piena di banalità e di roba da bere,/ piena di pioggia e di tuono e di periodi/ di siccità, una poesia è una città in guerra,/ una poesia è una città che chiede a una pendola perché,/ una poesia è una città che brucia,/ una poesia è una città sotto le cannonate/ le sue sale da barbiere piene di cinici ubriaconi…”. Sembra quasi di vederlo seduto lì, in qualche locale di infimo ordine, mentre è già al terzo whiskey, alle 8 di mattina, e guarda fuori da una grossa vetrata allo spettacolo dell’assurdo carnevale umano. Anche se è probabile che, materialmente, le rime in questione non siano state composte se non a casa, di fronte alla macchina da scrivere, certo la loro genesi creativa è lì, nel baccano di un luogo affollato che sa di sudore da lavoro manuale, alcolici e fumo di sigaretta.
Ed è piena la sua opera di scritti simili. Provate a leggere Prima dell’AIDS: “Sono contento di averle avute/ tutte quante, sono contento di essermele fatte/ così tutte./ Le ho infilate,/ le ho chiavate,/ le ho trombate./ c’erano così tanti tacchi a spillo/ sotto il mio letto/ che sembravano i saldi/ di fine stagione”. Ancora oggi, per roba simile, in Italia, si verrebbe guardati di traverso, con sufficienza – qualcuno chiamerebbe l’esorcista. “La poesia è altro” ti direbbero quelli che cantano dal centro di Milano di uccellini e laghetti cristallini. Grazie al cielo, più di quarant’anni fa, i nostri connazionali scoprirono il pazzo americano, altrimenti saremmo ancora a “La nebbia a gl’irti colli/ piovigginando sale,/ e sotto il maestrale/ urla e biancheggia il mar”. Timidamente, ma è anche grazie a lui se ci stiamo pian pianino svecchiando.
Poi, certo, di Bukowski si è detto di tutto. Se fosse vivo oggi, senza essere ancora l’autore consacrato che conosciamo, le femministe lo crocifiggerebbero per certe sue boutade sulle donne, per quel rancore che ogni uomo lungamente respinto dall’altro sesso cova dentro di sé. In verità, manco a dirlo, non vi è traccia di un tale odio da parte sua, casomai la consapevolezza, come dice il titolo di una sua nota raccolta poetica, che Amore è un cane che viene dall’inferno. Insomma, incomprensione e caos dominano nel regno del sentimento.
Chissà, poi, sempre se fosse vivo, cosa penserebbe lui di tutta la gente che, sui social, lo cita a cazzo, o addirittura gli attribuisce frasi non dette, versi mai composti, passi di romanzi che non sono suoi, roba melensa indegna di uno scrittore di quel calibro, solo per accompagnare una foto di dubbio gusto fatta in spiaggia o in montagna. Grazie a Dio, non ha avuto la sfortuna di assistere a un simile degrado.
Speriamo solo che si fermi l’assurda pubblicazione di porcherie provenienti dal suo passato più remoto, di quei primi stentati tentativi di divenire uno scrittore – sono già troppi quelli in circolazione. A un certo punto, con la morte, volenti o nolenti, si diviene ciò che si è fatto, senza più possibilità di modificare il proprio operato. L’importante è ciò che resta, quel che volontariamente e coscientemente si è deciso di lasciare al mondo. Fuor di dubbio, il suo contributo basta e avanza per giustificare una lunga, alcolica e forsennata esistenza.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).