MEDITAZIONI SARTRIANE – “NON C’È NIENTE, NESSUNA RAGIONE D’ESISTERE” (di Matteo Fais)
“Ma il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo” (Jean Paul Sartre, La nausea, Einaudi).
Come denominare uno che si sente in diritto di esistere, ovvero che ritiene di avere un posto nel mondo giusto e garantito, da onorare? Il filosofo e scrittore francese Jean Paul Sartre, nel famoso romanzo La Nausea, li fa chiamare, dal personaggio di Antoine Roquentin, “sporcaccioni”.
Il bersaglio polemico del protagonista è la borghesia di Bouville, quella che vede passeggiare la domenica in centro tra scappellamenti, inchini e cerimoniali vari, o i cittadini più famosi del passato di cui contempla i ritratti nel museo del posto. Essi rappresentano, in generale, tutta una categoria di umanità diffusa perfettamente inserita nel proprio tempo, in una realtà antropologica e di costumi.
Qual è il loro peccato? Rifiutare la gratuità dell’esistenza, il fatto di essere frutto del caso, pensarsi necessari, ritenere di ricoprire un ruolo il quale non avrebbe potuto essere se non quello – padre di famiglia, educatore, pedagogo, insegnante, maestro, filantropo. Nelle parole dell’autore: “Ciascuno ha la sua piccola fissazione personale che gli impedisce di accorgersi che esiste; non ce n’è uno che non si creda indispensabile a qualcuno o a qualche cosa”. Tale “piccola fissazione” è ovviamente il ruolo o lavoro che il soggetto ricopre nella comunità e con il quale cerca disperatamente di identificarsi, senza concedersi alcun cedimento dal ruolo – il medico, per esempio, sarà irreprensibile, il suo compito, sempre e comunque, è salvare i corpi, come quello del prete si indirizzerà verso le anime, per preservare la salute pubblica.
Costoro, ovviamente, ambiscono a essere per gli altri, e in particolare per i giovani, immagini monolitiche di moralità, esempi di santità e dedizione in vita. La loro massima aspirazione è, manco a dirlo, di dispensare tanta sapienza al mondo: “verso i quaranta, battezzano le loro piccole ostinazioni e qualche proverbio col nome di esperienza, e cominciano a fare i distributori automatici: due soldi nella fessura a sinistra ed ecco aneddoti avvolti in carta argentata; due in quella di destra e si ricevono consigli preziosi che ti s’incollano ai denti come caramelle”.
Che si ritrovino più o meno graduati, con una o cento medagliette appuntate sulla giacca, sono più o meno tutti così, persino “i segretari, gli impiegati, i commercianti, quelli che ascoltano gli altri al caffè”. Anch’essi, raggiunta la mezza età, “si sentono gonfi d’un’esperienza che non sanno come smaltire. Per fortuna hanno fatto dei figli e li obbligano a consumarla sul posto. Vorrebbero farci credere che il loro passato non è perduto, che i loro ricordi si sono condensati, si sono mollemente convertiti in Saggezza. Comodo passato! Passato da tasca, libriccino dorato, pieno di belle massime: «Credetemi, vi parlo per esperienza; tutto quel che so l’ho imparato dalla vita». Si sarebbe forse incaricata di pensare per loro, la Vita?”.
È abbastanza chiaro che la loro è tutta una gigantesca farsa, la recita sociale quotidiana, un modo patetico di sfuggire all’angoscia dell’inautenticità che il conformismo mitiga appena: “Professionisti dell’esperienza? Ma se hanno trascinato la loro vita nel torpore e nel dormiveglia! Si sono sposati in fretta, per impazienza, ed hanno messo al mondo figli, a caso. Si sono incontrati con gli altri nei caffè, ai matrimoni, ai funerali. Di tanto in tanto, presi in un gorgo, si sono dibattuti, senza capire cosa gli capitava. Tutto ciò ch’è avvenuto attorno a loro, è cominciato ed è finito senza che se ne avvedessero; lunghe forme scure, avvenimenti che venivano di lontano, li hanno sfiorati rapidamente e quando essi si son voltati per guardare, erano già finiti”.
Esiste forse una possibilità di fuga da questa terrificante tendenza, che ognuno assume su di sé, di cercare disperatamente di essere qualcuno, un individuo rispettabile e arruolato a pieno titolo per servire la società intorno a sé, essendo niente più che una maschera? In verità, come chiarirà meglio in L’Essere e il Nulla lo stesso autore, tutti siamo condannati a essere qualcuno, o meglio ancora a essere ridotti a ciò che abbiamo fatto della nostra vita – se volete sapere chi sia stato Proust, non potete che leggere Alla ricerca del tempo perduto.
A ogni modo, l’unica possibilità per non cascare a piedi uniti nel ridicolo e nel penoso spirito di serietà è accorgersi del grande inganno, prenderne atto con disperato coraggio. “Non c’è niente, niente, nessuna ragione d’esistere”, pronuncia Antoine Roquentin in faccia a un altro personaggio e al mondo. “L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre”, questo bisogna capire, senza cedere alla tentazione metafisica di una giustificazione ulteriore, divina: “C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare”.
Non c’è fuga e tantomeno scuse, siamo qui senza che vi sia alcun senso, non per amore, necessità, o per grazia ricevuta: “Ed era vero, me n’ero sempre reso conto: non avevo il diritto di esistere. Ero apparso per caso, esistevo come una pietra, una pianta, un microbo. La mia vita andava a capriccio, in tutte le direzioni. A volte mi dava avvertimenti vaghi, a volte non sentivo che un ronzio senza conseguenze”.
Se qualcuno pensa che il messaggio sartriano sia quello della massima angoscia senza via d’uscita, sia chiaro, si sbaglia. Se non possiamo evitare di essere qualcosa, ciò che ci fa scadere non è prodigarci in tale sforzo, ma pretendere che questo ruolo sia un destino scritto in cielo. La radice della nostra libertà sta proprio in ciò: non siamo niente prima di impegnarci a essere qualcosa.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”) e, in radio, con la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana. Ha pubblicato L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima (Robin Edizioni). Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Il suo romanzo più recente è Le regole dell’estinzione (Castelvecchi). La sua ultima opera è una raccolta di poesie, L’alba è una stronza come te – Diario d’amore (Delta3 Edizioni).