Il Detonatore

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CHARLES SIMIĆ, UN POETA DAI BALCANI ALL’AMERICA, TRA IRONIA, AMORE E ODIO PER IL NAZIONALISMO (di Melania Acerbi)

“La critica ideologica è sempre statica. Ha la sua ‘posizione coerente’ dalla quale non si smuove. È come pretendere che tutti i quadri debbano essere guardati da una distanza di tre metri, non uno di più né uno di meno. Ora, è chiaro che a quella distanza molti quadri non respirano. Inoltre, noi non ci troviamo mai in un unico punto di osservazione, se non intellettualmente. Nella vita e nell’arte siamo sempre simultaneamente in molti punti per volta” (Charles Simić, Il mostro ama il suo labirinto, Adelphi).

Il mondo della poesia occidentale tardo-novecentesca è ricco di voci uniche. Tra queste, spicca quella del poeta serbo-americano Charles Simić, Premio Pulitzer per la poesia con il capolavoro The World Doesn’t End del 1989 (Il mondo non finisce, Donzelli, 2001). 

Le sue opere, intrise di nostalgia dei Balcani, immagini dalla bellezza surreale e osservazioni acute sulla vita quotidiana, si presentano come una ragnatela affascinante in grado di catturare l’essenza della condizione umana e, insieme, lo spirito dannato della metropoli americana che non dorme mai, proprio come egli stesso, tormentato dall’insonnia. 

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L’infanzia di Simić, che nacque nel 1938 a Belgrado, è forgiata dalle vicende della Seconda Guerra Mondiale e dalla fuga, nel 1954, dalla Jugoslavia comunista, prima a Parigi e poi negli Stati Uniti

Già nel ‘59, a soli ventun’anni, la sua prima poesia in lingua inglese viene pubblicata sulla Chicago Review, una rivista culturale di gran prestigio: in quell’occasione, Simić celebrerà il suo nuovo “battesimo americano”, lontano dai quei totalitarismi che avevano imprigionato Libertà e Civiltà nella Muda, destinandole a condividere coi figli di Ugolino la stessa tragica sorte. 

“L’America è il palcoscenico della mia vita letteraria, un laboratorio affollato di storie e possibilità”, rifletterà il poeta, donando una prospettiva intima sulla sua connessione con “quell’altro Occidente” al di là dell’Atlantico.

La poetica del bardo della città bianca è incentrata sull’incertezza intesa come principio primo della natura dell’essere. Un riflesso, forse, della sua complessa identità di nomade. Una serie di punti interrogativi, infatti, sembrano sospendere il tempo tra una parola e l’altra, interrompere lo spazio tra un verso e quello successivo, come in Il senso tragico della vita: “Il lago è quieto nella prima luce del mattino./ La strada è tutta curve; rallento per lasciar passare/ di corsa un animaletto peloso./ I pochi veli di nebbia residua/ sono come il fumo che si leva dai cannoni./ […] Quanto a me, io non so dove sono -/ ecco che già me ne vado di corsa/ per una strada che non ha niente di speciale,/ boschi, solo boschi scuri mi si chiudono addosso”. 

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Il peso dell’incertezza è, per Simić, quello incalcolabile di uno sguardo, in questo caso di un Dio enigmatico che assume tratti medievali e postmoderni insieme: “Mio Signore, riesci a vedere/ le pulci che corrono al riparo?/ No, le pulci non le riesci a vedere. Eppure, egli non si perde mai d’animo: il poeta gioca sempre la carta dell’umorismo, l’unica arma in grado di mettere all’angolo una disperazione che, altrimenti, rimarrebbe senza soluzione. Dubbioso e sfrontato, guizzante e romantico, Simić condensa in sé e nei suoi scritti crudo realismo e sogno, verità e artificio, accompagnando il lettore lungo una sottile striscia di spiaggia che separa (o unisce?) due mondi e due consistenze. Esemplari sono, in tal senso, le sue opere più celebri: Hotel Insomnia, Club Midnight, Il Lunatico, Avvicinati e Ascolta. 

Il sarcasmo tagliente è l’ingrediente principale di ogni sua esternazione, soprattutto di natura politica. Ne Il mostro ama il suo labirinto, Simić scriverà della sua terra d’origine: “Le fabbriche di orfani e gli allevamenti di capri espiatori sono i pilastri dell’economia dei Balcani. […] Qualunque ideologia o fede che non sia insaporita dall’odio non ha alcuna possibilità di successo popolare. Per essere veri credenti bisogna essere campioni d’odio. […] Il nazionalismo è amore per l’odore della nostra merda collettiva”.

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I poeti, spesso, percepiscono il vento che cambia prima che quello riesca a spostare le pedine della Storia, e Charles Simić non fa eccezione. Essi ne sentono l’odore e gli danno un nome, lasciando i tecnicismi e le complicate elucubrazioni agli analisti e agli storici di mestiere. “La poesia continua a essere la serenata di gatti sotto le finestre della stanza in cui si scrive la versione ufficiale della realtà dirà, a ragione, in La vita delle immagini. 

Il genio di Simić risiede inoltre nella sua capacità di creare paradossi che evocano un equilibrio impeccabile: mai eccessivamente tormentati o sostenuti, sempre armoniosi, collocandosi lungo il percorso che unisce la consapevolezza del limite alle possibilità infinite dell’amore (“L’Amore, quel maledetto idiota”). L’arte, in questo caso di scrivere, è la disciplina della connessione. Come una farfalla che si libra attraverso il tempo, la poesia di Simić trova la sua immortalità nell’anima di chi si dispone ad accoglierla.

Melania Acerbi

 L’AUTRICE

Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Cofonda nel 2017, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming). 

Contattimel.acer@gmail.com

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