GLI INTELLETTUALI E LE MASSE (di Matteo Fais)
Definire cosa sia un intellettuale è impresa non facile, in questi tempi in cui, come diceva una bella canzone di Luca Carboni, “siamo tutti un po’ malati e siamo anche un po’ dottori” – nella luce della pandemia, il verso assume più che mai significato, peraltro.
Ma volendo arrischiarsi – per non restare nella vaghezza che dà adito a troppe fantasie presso i lettori – si potrebbe asserire, genericamente, che intellettuale è colui che ha fatto del proprio cogitare una costante della sua esistenza, del dubbio la sola certezza e che considera certe convinzioni – perché, alla fine, un qualche pensiero stabile se lo sarà pur fatto – come passibili di essere rimesse in discussione in qualsiasi momento.
Naturalmente, non solo l’intellettuale può avere un sapere. La differenza è che, nel suo caso, questo è sottoposto a costanze frizione dialettica. Perciò ogni vero esemplare della categoria sa di non sapere, perché è conscio di poter ridiscutere eternamente le proprie posizioni, diversamente da colui che ha una fede e la propugna instancabilmente, sentendo come lecito, per esempio, anche l’uso della violenza per farla valere. Va da sé, quindi, che gli intellettuali sono un numero infinitesimale anche rispetto alle persone dotate di sapere e di cultura. Non parliamo, poi, in rapporto alle masse.
Uno dei motivi per cui, specialmente in Italia, tutto muta perché niente realmente cambi, è dovuto in particolare al fatto che le persone comuni non hanno la benché minima idea di cosa pensino gli intellettuali, o le persone colte. Se andassimo a chiedere alla maggior parte dei macellai, dei commessi, delle estetiste e delle parrucchiere, degli addetti a un’agenzia di pulizia un’opinione, per quanto limitata, sul conflitto israelo-palestinese, scopriremmo che probabilmente non sanno neppure dove sia situata la terra degli ebrei sulla cartina geografica.
In ultimo, dell’opinione di Daniel Barenboim o di David Grossman sulla guerra – tanto per citare due nomi recentemente comparsi su “Repubblica –, volgarmente, non frega un accidenti di niente a nessuno, esclusa un ristrettissima bolla che vive il sollazzo borghese di confrontare la propria visione con quella delle cosiddette menti illuminate. E anche se, per un fortuito caso, l’uomo medio dovesse imbattersi in qualche loro articolo, non riuscirebbe neppure ad attribuire un volto a questi due nomi e non avrebbe nozione del background che conferisce a essi tanta autorità da trovar spazio su uno dei più famosi quotidiani nazionali.
Le masse vivono, per così dire, in un mondo parallelo a quello degli intellettuali – vale anche il contrario, ovviamente –, in cui certi discorsi non guadagnano neppure la porta d’ingresso. Mentre là fuori esplodeva il ’68, il movimento del ’77, la lotta armata, la crisi di questo e di quell’altro, una signora Pina qualsiasi si preoccupava unicamente di ricordarsi il basilico e la noce moscata nel sugo. Il suo mondo era la cucina, forse le bollette – visto che in una società matriarcale le donne gestivano le entrate. Ma, per lei, quella che trovava nella busta era solo una cifra da pagare, una cifra assurda come tutte – nel senso che dietro questa lei non vedeva la longa manu di uno Stato che prende soldi per garantire, in teoria, del servizi. La sua lettura più profonda era un fotoromanzo, antenato delle soap opera stile Beautiful.
Oggi, non è cambiato niente. Quello della Ferragni è lo stesso rotocalco. Ma la famosa agorà è rimasta appannaggio esclusivo degli aristoi, i migliori, la classe nobile che discute di politica ed epistemologia, mentre gli schiavi sgobbano.
Il discorso degli intellettuali resta, insomma, del tutto alieno a quello che trova spazio presso le masse. Non esiste dialogo, manca anche l’istruzione per poter comprendere se quanto sostenuto dal Dottor X abbia un qualsivoglia fondamento. Se non si colma questo infinito iato non si potrà mai risolvere niente – e a nulla servirà sfornare laureati che si limitino ad aprire dei testi e sostenere degli esami, per poi non leggere più una riga in tutta la loro vita. Altrimenti ogni discorso, persino il più profondo e illuminante, in malafede o in buona fede, di un liberale come di un comunista, resterà attività fine a sé stesso, masturbazione mentale.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.